Curatore

Cass., sez. VI-2, ord. 14 maggio 2018 n. 11606 (Pres. Manna, rel. Scarpa)

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso nn/aaaa proposto da:

N.S.N. DI C.G. E P. SNC, elettivamente domiciliata in ROMA, ***, presso lo studio dell’avvocato M.M., rappresentata e difesa dall’avvocato R.O.;

– ricorrente –

contro

N.L.E. BV, elettivamente domiciliata in ROMA, ***, presso lo studio dell’avvocato G.N.A., che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati G.A., V.A.;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4448/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 29/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 20/02/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La ricorrente s.n.c. N.S.N.di C.G. e P. impugna per tre motivi (violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione dell’art. 2697 c.c.; violazione e falsa applicazione, nonchè vizio di motivazione, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c.) la sentenza della Corte d’Appello di Milano n. NN/2016 del 29 novembre 2016.

Resiste con controricorso la N.L.E. BV.

La sentenza impugnata ha rigettato l’appello formulato dalla stessa N.S.N. s.n.c. avverso la pronuncia resa in primo grado il 15 gennaio 2016 dal Tribunale di Milano.

Il giudizio ebbe inizio con decreto ingiuntivo per l’importo di Euro ***, oltre interessi legali, intimato dalla N.L.E. BV alla N.S.N. s.n.c. per il pagamento di strumentazioni di navi da diporto ordinate da quest’ultima. Il Tribunale di Milano, preso atto dell’avvenuto pagamento in corso di causa della somma di Euro ***, revocò il Decreto Ingiuntivo e condannò la N.S.N. s.n.c. al pagamento dell’importo residuo dovuto pari ad Euro ***. La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che il credito azionato, e quindi il rapporto commerciale intercorso fra le parti, fossero stati provati dallo scambio di mail intervenuto il 13 ottobre 2011 e il 24 novembre 2011 fra P.C., financial controller della N.L.E. e C.P., socio della s.n.c. N.S.N., avendo quest’ultimo proposto un piano di rientro per i crediti scaduti, ammontanti ad Euro ***, piano accettato dalla N.L.E.. La documentazione acquisita, ad avviso della Corte di Milano, rendeva superflue le ulteriori deduzioni istruttorie per prova testimoniale della debitrice opponente a decreto ingiuntivo. La condanna alle spese del processo è stata, infine, giustificata dai giudici di appello per la permanente soccombenza della s.n.c. N.S.N., nonostante il pagamento parziale avvenuto in corso di lite e la conseguente revoca dell’ingiunzione.

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della Camera di consiglio.

Quanto al primo motivo, le dedotte violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., sono prive di consistenza, atteso che la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere ipotizzata come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha deciso la causa sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre; mentre la violazione dell’art. 116 c.p.c., è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, denunciabile per cassazione, solo quando il giudice di merito abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, e non per lamentare che lo stesso abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova (Cass. Sez. 3, 10/06/2016, n. 11892).

E’ invece inammissibile la doglianza fondata sul parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto questo, come riformulato del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, contempla soltanto il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Tale vizio non risulta in ogni caso denunciato nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che il contratto di fornitura intercorso fra le parti, ed il conseguente credito azionato in sede monitoria, fosse stato provato dallo scambio di mail intervenuto il 13 ottobre 2011 e il 24 novembre 2011 tra i rappresentanti delle due società, mail non contestate “quanto alla loro provenienza e testuale contenuto”.

Ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 1, comma 1, lett. p), (Codice dell’amministrazione digitale), la e-mail costituisce un “documento informatico”, ovvero un “documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. L’e-mail, pertanto, seppur priva di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche, ovvero fra le rappresentazioni meccaniche indicate, con elencazione non tassativa, dall’art. 2712 c.c. e dunque forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale viene prodotta non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (arg. già da Cass. Sez. 3, 24/11/2005, n. 24814).

Poichè nella mail del 13 ottobre 2011 C.P., socio della s.n.c. N.S.N., si era impegnato a rientrare dalla propria esposizione debitoria, quantificata in Euro ***, la Corte d’Appello di Milano, correttamente operando la ripartizione dell’onere della prova, ha ritenuto dimostrata l’esistenza del rapporto contrattuale, nonchè verificato l’importo del credito azionato col decreto ingiuntivo.

E’ del pari infondato il secondo motivo di ricorso. La doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, ed integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, mentre la censura che investe la valutazione delle prove può essere fatta valere nei limiti già richiamati del vigente n. 5 del medesimo art. 360 (Cass. Sez. 3, 17/06/2013, n. 15107).

Il secondo motivo rivela inoltre profili di inammissibilità, in quanto, qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha sempre l’onere, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (da ultimo, Cass. Sez. 6-1, 04/10/2017, n. 23194). Peraltro, l’ammissione delle prove testimoniali sulle stesse circostanze già oggetto di prova documentale prodotta costituisce un potere tipicamente discrezionale del giudice di merito, il quale può ritenere superflua l’ulteriore assunzione della prova per testimoni ove ritenga sufficientemente istruita la causa, con giudizio che si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivato anche per implicito dal complesso della motivazione (Cass. Sez. 3, 12/07/2005, n. 14611).

E’ infine da respingere anche il terzo motivo di ricorso. Nel procedimento per ingiunzione, la fase monitoria e quella di cognizione che si apre con l’opposizione, fanno parte di un unico processo, nel quale l’onere delle spese è regolato in base all’esito finale del giudizio di opposizione ed alla complessiva valutazione dello svolgimento di esso e della soccombenza; di conseguenza, l’accoglimento parziale dell’opposizione avverso il decreto ingiuntivo, sebbene implichi la revoca dello stesso, non comporta necessariamente il venir meno della condanna dell’ingiunto (poi opponente) al pagamento delle spese di lite. Nel liquidare tali spese, quindi, non viola affatto il disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c., il giudice che lasci le stesse interamente a carico della parte ingiunta, allorquando la revoca del decreto ingiuntivo sia dipesa, come nella specie, dal pagamento (per di più parziale) della somma recata dal decreto monitorio nel corso del giudizio di opposizione (Cass. Sez. 6-1, 21/07/2017, n. 18125; Cass. Sez. 3, 12/05/2015, n. 9587; Cass. Sez. 1, 01/02/2007, n. 2217).

Il ricorso va perciò rigettato e la ricorrente va condannata a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, della Corte Suprema di Cassazione, il 20 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2018

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Trib. Vicenza, sez. II, sent. 22 novembre 2016 n. 2013 (est. Morandin)

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI VICENZA

II SEZIONE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Ivana Morandin ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile promossa da

C.D. (C.F. ***), con l’avv. G.I. e l’avv. V.S.

contro

W.W. (C.F. ***), con l’avv. C.F. e l’avv. G.B.

OGGETTO: Vendita di cose mobili

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione notificato in data 3.07.2009, il sig. D.C., quale titolare dell’omonima ditta individuale, ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo NN/AAAA, provvisoriamente esecutivo, con cui il Tribunale di Vicenza aveva ingiunto il pagamento in favore della ditta W.W. della somma di € *** per la fornitura di pellame di cui alle fatture n. ***.

In particolare l’opponente ha chiesto, in via pregiudiziale, di dichiararsi la nullità del decreto ingiuntivo opposto, perché adottato in data 30.03.2009 ma mai formalmente depositato in cancelleria e pubblicato e, in subordine e nel merito, di revocarsi il medesimo decreto ingiuntivo o di ridursi l’importo ingiunto.

In particolare, l’opponente ha confermato di aver effettivamente ottenuto dal sig. R. la fornitura di pellame analiticamente indicato nelle fatture *** per un totale di € ***; ha poi dedotto di aver, a sua volta, fornito nel medesimo lasso temporale (dal 19 settembre 2007 al 21 aprile 2008) all’opposta pellame per complessivi € *** e di aver perciò concordato con la controparte di tacitare in parte qua le rispettive posizioni creditorie e debitorie facendo ricorso al meccanismo della compensazione; ha, infine, dichiarato di non aver mai richiesto e ricevuto la merce di cui alla fattura ***, negando perciò di essere debitore della relativa somma di € *** e sottolineando, a tal fine, come in relazione alla merce ivi indicata, a differenza delle precedenti forniture, la spedizione sia avvenuta “a cura del mittente”, anziché del vettore, ed il documento di trasporto sia privo di qualsivoglia sottoscrizione.

Nel costituirsi in giudizio, la ditta opposta ha chiesto la conferma del decreto ingiuntivo, sostenendo l’infondatezza dell’eccezione pregiudiziale di controparte, per aver l’atto in questione raggiunto lo scopo cui era destinato anche in assenza di deposito e pubblicazione da parte della Cancelleria, e dichiarando nel merito di aver già provveduto a pagare le forniture dedotte dall’opponente in compensazione e di aver effettivamente consegnato a controparte la merce di cui alla fattura n. ***, come dimostrato dalle mail inviate da D.C. a W. agli indirizzi di posta elettronica AAA@libero.it e CCC@libero.it, nella quali l’opponente lamentava la non conformità della merce all’ordine.

L’opposta ha richiesto altresì la condanna dell’opponente ex art. 96 c.p.c..

La causa è stata istruita per il tramite di prova testimoniale ed, all’esito, trattenuta in decisione dal nuovo Giudice Istruttore nel frattempo designato.

Va, anzitutto, rigettata l’eccezione di nullità del decreto ingiuntivo sollevata in via pregiudiziale dall’opponente, in quanto infondata.

L’impresa C. ha infatti specificamente lamentato il mancato “formale” deposito del decreto ingiuntivo nella cancelleria del Tribunale adito, con ciò alludendo alla mancata certificazione del deposito stesso da parte del cancelliere.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, mentre la pubblicazione del decreto ingiuntivo mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciato, ai sensi dell’art. 133, comma primo, cod. proc. civ. – deposito consistente nella consegna ufficiale al cancelliere dell’originale della decisione sottoscritta dal giudice – costituisce un elemento essenziale per l’esistenza dell’atto, al contrario, la certificazione del compimento di tale attività, che deve essere eseguita dal cancelliere a norma del secondo comma dello stesso art. 133, è formalità estrinseca all’atto, con la conseguenza che la sua mancanza non determina la nullità del provvedimento, atteso che l’individuazione del giorno del deposito è sempre consentita con l’uso della normale diligenza, attraverso la consultazione delle annotazioni del cancelliere sui registri degli atti giudiziari (cfr. Cass. n. 9863/2004).

Nel caso di specie, si ritiene che il decreto ingiuntivo in questione sia stato effettivamente depositato, come attestato dalla firma del cancelliere nella stessa data di emissione (30.03.2009 – cfr doc. 1 fasc. opponente).

Nel merito, l’impresa C. ha, anzitutto, riconosciuto di aver ricevuto la merce di cui alle fatture *** per un corrispettivo totale di € *** ed ha eccepito, in via riconvenzionale, di essersi accordato con W. per l’estinzione di tale debito mediante compensazione con il maggior credito di €*** vantato nei confronti di tale società da C..

A dimostrazione di tale assunto, l’opponente ha prodotto le fatture n. ***, emesse nei confronti di W.: l’opposta, tuttavia, ha sostenuto l’infondatezza dell’eccezione di compensazione invocata dall’opponente, per aver già provveduto all’integrale saldo delle fatture in questione, come evincibile dalla quietanza di pagamento sottoscritta dall’impresa C. in data 6.10.2008.

Sul punto, ritiene questo Giudice che la tesi sostenuta dall’opponente non sia credibile, avendo essa stessa predisposto il documento contenente la quietanza di pagamento (come si evince dalla carta intestata – cfr. doc. R fasc. opposta) ed avendo tutto l’interesse alla data del 6.10.2008 a mettere per iscritto l’avvenuta compensazione tra le rispettive poste creditorie e debitorie, al fine di evitare che controparte potesse in un secondo momento far valere il credito portato dalle fatture oggi azionate in via monitoria, a quel momento tutte già scadute.

Del resto, l’accordo circa la compensazione dei rispettivi crediti, così come dedotto in atto di citazione in opposizione da parte dell’impresa C. (cfr. pag. 3 ” le parti, ancora una volta a cagione degli ottimi rapporti tra di loro in essere, convennero di tacitare in parte qua le rispettive posizioni creditorie e debitorie facendo ricorso ad un logico meccanismo di compensazione”) non è stato dimostrato dalla parte a ciò onerata, la quale ha formulato sul punto il solo capitolo di prova testimoniale b) di cui alla memoria 183 comma 6 n. 2 c.p.c. di data 9.12.2009, inammissibile in quanto generico.

Appare, dunque, fondata la pretesa di pagamento azionata in via monitoria con riguardo alle fatture ***, per un corrispettivo totale di € ***.

Si tratta ora di accertare la fondatezza della pretesa azionata in via monitoria da W. con riferimento alla fattura n. ***, di importo pari ad € ***, per la quale l’opponente ha contestato l’esistenza del rapporto contrattuale e l’effettiva ricezione della merce.

Sul punto, l’opposta ha prodotto, in sede monitoria, la fattura in questione corredata dall’estratto autentico notarile nonché, in allegato alla comparsa di costituzione e risposta, comunicazione mail di controparte del 20.10.2008, nella quale – a fronte dell’invio da parte di W. della fattura n. *** – veniva contestata la merce ricevuta perché non conforme all’ordine, e ulteriore mail del 21.10.2008, nella quale l’odierna parte opponente sollecitava un riscontro da parte della W. in ordine alla restituzione della suddetta merce.

All’udienza di prima comparizione, il procuratore di parte opponente ha disconosciuto genericamente ex art. 214 c.p.c. la scrittura privata prodotta da controparte sub doc. H (ossia la mail asseritamente inviata dall’impresa C. in data 20.10.2008) e, in sede di memoria ex art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c., ha ribadito il disconoscimento ex art. 214 c.p.c., sottolineando l’impossibilità di equiparare il documento in questione ad una scrittura privata, siccome privo di sottoscrizione e, in specie, di firma digitale o firma elettronica qualificata.

Ora, con riguardo al disconoscimento delle produzioni documentali di parte opposta, deve rilevarsi che, come noto, il documento informatico sprovvisto di qualsiasi firma elettronica che ne attesti la provenienza, essendo pur sempre un documento, ha l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2712 c.c. riguardo ai fatti ed alle cose rappresentate, essendo stata sancita l’applicabilità della norma sulle rappresentazioni meccaniche; la Suprema Corte ha più volte avuto modo di affermare che i documenti informatici privi di firma digitale hanno l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2712 c.c., per le rappresentazioni meccaniche di fatti e di cose, le quali formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime, ricordando che questo disconoscimento è diverso da quello previsto dall’art. 215, comma 2, c.p.c. per la scrittura privata, in quanto, anche in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni, tanto più quando il documento non viene fatto valere come prova di un negozio, fonte diretta di diritti ed obblighi tra le parti ma, come nel caso di specie, al solo fine di dimostrare un fatto storico, da valutare nell’apprezzamento di una più complessa fattispecie, restando in tal caso il giudice libero di formarsi il proprio convincimento utilizzando qualsiasi circostanza, atta a rendere verosimile un determinato assunto, come qualsiasi altro indizio, purché essa appaia grave, precisa e concordante.

Fatta tale premessa, si rileva come una copia cartacea di una pagina web tratta dalla rete sia già di per sé un documento informatico originale, per cui la stampa di un testo pubblicato su Internet può essere considerata una riproduzione di un documento, a prescindere da un suo specifico valore probatorio. Permane, però, il principio secondo il quale il documento informatico privo della firma elettronica, ha invece l’efficacia probatoria prevista dall’articolo 2712 c.c., nel senso che esso va ricompreso tra le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica (ed ora elettronica) di fatti e di cose, le quali formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.

Come già detto, il disconoscimento della conformità di una delle riproduzioni menzionate nell’articolo 2712 c.c. ai fatti rappresentati non ha gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’articolo 215 comma 2 c.p.c., della scrittura privata, perché, mentre quest’ultimo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (cfr. Cass. 11445/2006).

In sostanza, a fronte di un documento informatico privo di firma digitale, costituente comunque una rappresentazione meccanica (elettronica) di fatti o di cose, il disconoscimento, volto a rimuovere l’efficacia probatoria di detto documento, deve essere circostanziato e deve concernere la sua capacità rappresentativa della realtà e quindi la sua genuinità ed attendibilità (cfr. Cass. 9884/2005: “in ordine all’assunta contestazione dei dati del sistema informatico, è da osservare preliminarmente che, per l’art. 2712 c.c., la contestazione esclude il pieno valore probatorio della riproduzione meccanica, ove abbia per oggetto il rapporto di corrispondenza fra la realtà storica e la riproduzione meccanica (la conformità dei dati ai fatti ed alle cose rappresentate)” ed “ove la contestazione (con questo specifico contenuto) vi sia stata, la riproduzione, pur perdendo il suo pieno valore probatorio, conserva tuttavia il minor valore di un semplice elemento di prova, che può essere integrato da ulteriori elementi)”.

Nel caso concreto parte opponente, come già detto, ha disconosciuto ai sensi dell’art. 214 c.p.c. il documento in questione, contestando la rilevanza probatoria del medesimo per l’assenza di sottoscrizione elettronica e per la totale incertezza in ordine alla provenienza ed alla integrità del contenuto. Ha, poi, ribadito di non aver ordinato né ricevuto la merce indicata nella fattura in questione, lamentando in ogni caso l’assenza di prova circa il prezzo pattuito.

Trattandosi di azione di adempimento contrattuale, come più volte ribadito dalla Cassazione, spetterà a colui che agisce dar prova del titolo in base al quale la pretesa viene esercitata, potendosi poi limitare ad allegare l’inadempimento di controparte.

La pretesa dell’opposta in relazione al saldo della fattura n. (omissis…) appare infondata.

A fronte del disconoscimento della mail di cui al doc. H (o anche P e Q fasc. opposta), nella quale peraltro viene fatto genericamente riferimento ad un non meglio precisato “ordine”, incombe su parte opponente l’onere della prova circa l’esistenza del titolo.

L’impresa W., invece, si è limitata a fornire prova per testi in ordine all’effettivo trasporto della merce […]

Omissis

 

Trib. Vicenza, sez. II, sent. 22 novembre 2016 n. 2013 (est. Morandin) Leggi tutto »

Trib. Milano, sent. 19 agosto 2016 n. 9728 (Pres. De Sapia, rel. Mennuni)

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 Tribunale Ordinario Di Milano

TERZA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, in composizione collegiale in persona dei sigg. magistrati

dott. Cesare de Sapia    Presidente
dott.ssa Maria Gabriella Mennuni   Giudice rel. est.
dott. Sergio Rossetti   Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul reclamo ex art. 630 c.p.c. proposto da

COND. V.S. n. 8 M. (C.F. ***), rappresentato e difeso dall’avv. V. A. presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Milano ***

RECLAMANTE

CONTRO

D.S. (C.F. )

RECLAMATA

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Condominio reclamante notificava atto di pignoramento immobiliare nei confronti di D. S. reclamata il 28/12/14.

L’atto veniva consegnato al reclamante dall’ufficiale giudiziario il 26/1/2015 e in pari data la procedura per espropriazione veniva iscritta a ruolo (R.G.E. NN/AA) mediante deposito di copie per immagini del titolo esecutivo, del precetto e del pignoramento, senza deposito di attestazione di conformità.

Con provvedimento in data 12/4/2016 il giudice dell’esecuzione dichiarava inefficace il pignoramento compiuto a norma dell’art. 557, co. 3, c.p.c.

Avverso il predetto provvedimento ha proposto tempestivo reclamo il Condominio, sostenendo la mera irregolarità, sanabile ex post dal momento che la norma non prevede un termine perentorio per l’attestazione di conformità degli atti cartacei a mani dei difensori, laddove runico termine sarebbe previsto per il deposito degli atti. Ai fini del decidere valgono le seguenti considerazioni.

Con D.L. 132/2014 convertito in L. 162/2014 il legislatore è intervenuto nel tessuto del libro terzo del codice di procedura civile, prevedendo, tra l’altro, una nuova modalità di formazione del fascicolo dell’esecuzione.

Originariamente, infatti, il disposto di cui all’art. 557 c.p.c. – per limitare il discorso alle espropriazioni immobiliari, ma identiche considerazioni valgono, mutatis mutandis, per le espropriazioni mobiliari presso il debitore e presso terzi – prevedeva che l’ufficiale giudiziario depositasse nella cancelleria del tribunale competente per l’esecuzione l’atto di pignoramento e la nota di trascrizione (ove la trascrizione non fosse stata curata dal creditore a norma dell art. 555, co. 2 e 3, c.p.c), mentre spettava al creditore depositare titolo esecutivo e precetto entro dieci giorni dal pignoramento.

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte formatasi nel vigore della precedente disciplina, il termine per il deposito del titolo e del precetto non era perentorio (v. ad es. Cass. 2370/64, Cass. 12722/1997, Cass. 5906/06, Cass. 6957/07), il deposito di una mera copia fotostatica del titolo non poteva essere rilevata d’ufficio, ma doveva essere oggetto di opposizione agli atti esecutivi (Cass. 8242/2003), mentre non rilevava {salva l’opposizione agli atti) la mancanza nel fascicolo del titolo esecutivo, purché in possesso del creditore (Cass. 1691/1975, Cass. 13021/1992, Cass. 6957/2007, Cass. 8306/2008). Il titolo esecutivo, pertanto, salvo il rischio di opposizione agli atti con conseguente necessità di sua produzione, doveva essere depositato in originale. L’art. 488, co. 2, c.p.c, poi, autorizzava il creditore al ritiro del titolo dietro deposito di una copia autentica e obbligo di presentare l’originale ad ogni richiesta del giudice. Sul punto si tornerà in seguito. Per evidenti finalità di razionalizzazione del lavoro di cancelleria, il legislatore del 2014 è intervenuto dettando nuove modalità di iscrizione a ruolo della procedura. Nella prassi giurisprudenziale precedente alla riforma, infatti, avveniva che il personale amministrativo dovesse spendere (soprattutto, ma non solo, con riferimento alle procedure di espropriazione presso terzi) una non irrilevante parte del proprio tempo di lavoro per procedere alle formalità necessarie alla formazione dei fascicoli relativi a tutti gli atti di pignoramento che gli ufficiali giudiziari depositavano e ciò in rigoroso ordine cronologico, indipendentemente da una qualsiasi richiesta del creditore procedente il quale, avvenuta la notifica dell’atto poteva decidere, per le più diverse ragioni (il pagamento del debito, un accordo con il debitore etc), di non coltivare la procedura.

Una serie di attività, quindi, sostanzialmente superflue che determinavano solo un inutile dispendio di energie lavorative.

Il legislatore del 2014, pertanto, per le finalità di cui sopra, è intervenuto sulle modalità di formazione del fascicolo dell’esecuzione, anche coordinando la nuova disciplina con nuove disposizioni sul processo civile telematico.

Con specifico riferimento al pignoramento immobiliare, infatti, l’art. 557 c.p.c. nel testo attualmente vigente dispone quanto segue: il creditore deve depositare nella cancelleria del tribunale competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi dei titolo esecutivo, del precetto, dell’atto di pignoramento e della nota di trascrizione entro quindici giorni dalla consegna dell’atto di pignoramento. Nell’ipotesi di cui all’articolo 555, ultimo comma, il creditore deve depositare la nota di trascrizione appena restituitagli dal conservatore dei registri immobiliari.

Il cancelliere forma il fascicolo dell’esecuzione. Il pignoramento perde efficacia quando la nota di iscrizione a ruolo e le copie dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto sono depositate oltre il termine di quindici giorni dalla consegna al creditore.

Con il medesimo intervento normativo {D.L 132/2014 convertito in L. 162/2014), inoltre, sono stati aggiunti all’art. 16 bis co. 2 D.L. 179/2012 convertito in L. 221/2012 i seguenti ultimi due periodi: “a decorrere dai 31 marzo 2015, il deposito nei procedimenti di espropriazione forzata della nota di iscrizione a ruolo ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nei rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Unitamente alla nota di iscrizione a ruolo sono depositati, con le medesime modalità, le copie conformi degli atti indicati dagli articoli 518, sesto comma, 543, quarto comma e 557, secondo comma, del codice di procedura civile. Ai fini del presente comma, il difensore attesta la conformità delle copie agli originali, anche fuori dai casi previsti dal comma 9-bis”.

E’ discusso se, a seguito della riforma, sia ancora in vigore il disposto di cui all’art. 488, co. 2 c.p.c. Si dice, infatti, che non essendo più previsto un deposito in originale dei titolo non avrebbe senso richiedere l’autorizzazione al ritiro dell’atto. La disposizione, peraltro, dovrebbe intendersi ancora in vigore almeno nella parte in cui consente al giudice dell’esecuzione di ottenere la presentazione dell’originale dell’atto ad ogni richiesta.

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, anche nella sua evoluzione storica, prima di esaminare la questione proposta da parte reclamante si devono valutare due questioni preliminari tra loro strettamente connesse.

Tali questioni esulano in parte rispetto alla questione proposta da parte reclamante – ed attinente alle conseguenze relative al tardivo deposito degli atti di cui all’art. 557 co. 2 c.p.c. privi di attestazione di conformità – per abbracciare, più complessivamente, le questioni inerenti alla declaratoria di inefficacia del pignoramento come stabilito dall’art. 557, co. 3, c.p.c.

In particolare, ci si deve domandare, in primo luogo, se la questione dell’inefficacia del pignoramento per tardivo deposito dei documenti indicati all’art. 557, co. 2, c.p.c. sia rilevabile d’ufficio; in secondo luogo, ci si deve chiedere quale sia il rimedio a disposizione della parte che si ritenga leso dal provvedimento che dichiara inefficace il pignoramento compiuto. Sotto tali profili è sufficiente rilevare come il disposto dì cui all’art. 557, co. 3 c.p.c. sanzioni, sostanzialmente, un’inattività della parte che omette di depositare, nel termine stabilito dalla legge, gli atti indicati.

La disposizione ricorda il disposto di cui agli artt. 497 c.p.c. e 156 disp att c.p.c, per i quali la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene che si verifichi una vicenda assimilabile all’estinzione del processo per inattività della parte (v. Cass. 9624/2003, Cass. 18366/10, Cass. 18536/2007).

Dal momento che, dopo la riforma di cui alla I, 69/2009 che sul punto ha modificato il disposto di cui all’art. 630, co. 2, c.p.c, i fatti estintivi del processo esecutivo sono rilevabili d’ufficio dal giudice, almeno fino alle udienze 530, 547 e 569, restando poi sanate dalla preclusione di fase (v Cass. SSUU 11178/95), ne risulta che anche l’inefficacia del pignoramento sancita dall’art. 557, co. 3, c.p.c è rilevabile d’ufficio. Siccome, poi, come detto, la previsione di cui all’art. 557, co. 3, c.p.c. sanziona sostanzialmente un’inattività della parte che determina l’estinzione del processo, il rimedio a disposizione del creditore non può che essere individuato nel reclamo al Collegio a norma dell’art. 630 co. 3 c.p.c.

Venendo ora alla questione posta con il reclamo, deve evidenziarsi come la scarna giurisprudenza di merito edita sul punto (Tribunale di Bologna, ordinanza 22.10.2015, Tribunale di Bari, ordinanza 04.05.2016, Tribunale di Caltanissetta, ordinanza 01.06.2016) ha generalmente affermato come meramente irregolari i depositi di titolo, precetto ed atto di pignoramento privi dell’attestazione di conformità.

I giudici che si sono occupati del tema hanno addotto a fondamento di tali decisioni un triplice ordine di ragioni.

Si è evidenziato, in primo luogo, un dato letterale: vero è che l’art. 557 co. 2 c.p.c. parla di copie conformi, ma l’art. 557 co. 3 c.p.c. sanziona con l’inefficacia del pignoramento il mero tardivo deposito di “copie” non ulteriormente qualificate.

Dal punto di vista sistematico si è poi affermato che l’art. 22 co. 3 C.A.D. equipara l’efficacia probatoria delle copie per immagine su supporto informatico ai documenti originali formati in origine su supporto analogico, se tali copie non sono disconosciute

In fine, dal punto di vista teleologico, il deposito di atti non attestati di conformità sarebbe comunque idoneo al raggiungimento dello scopo.

II Tribunale non condivide questi orientamenti.

Deve innanzitutto osservarsi che le copie di cui parla l’art. 557, co. 3, c.p.c. sono sicuramente le “copie conformi” di cui all’art. 557 co. 2 e non le mere copie dei medesimi atti. In tal senso esistono chiari indici testuali.

Da una parte, infatti, come già rilevato, l’art. 16 bis co. 2 D.L. 179/2012 convertito in L. 221/2012, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte con D.L. 132/14 convertito in L. 162/2014, precisa che con modalità telematiche siano depositate “le copie conformi degli atti indicati dagli articoli 518, sesto comma, 543, quarto comma e 557, secondo comma, del codice di procedura civile”.

Ancora, l’art. 159 ter disp. att. c.p.c. (disposizione introdotta con D.L. 83/15 convertito in I. 132/15) prevede che nell’ipotesi in cui l’iscrizione a ruolo del processo esecutivo avvenga su istanza del debitore, il creditore debba comunque depositare “copie conformi degli atti” nei termini di cui agli artt. 518, 543 e 557.

Sarebbe quindi irragionevole ritenere che solo perché sia il debitore ad iscrivere a ruolo la causa, sussista un onere dì deposito del creditore “rafforzato”.

All’art. 557, co. 3, c.p.c, quindi, quando si richiamano le copie degli atti, si devono intendere le “copie conformi” citate nel comma immediatamente precedente.

Ciò chiarito, l’argomento sistematico e teleologico perdono di spessore.

Come confermato dalla disamina della giurisprudenza formatasi precedentemente alla riforma del 2014, ai fini della completezza del fascicolo della procedura era necessario il titolo esecutivo, l’atto dì precetto e l’atto di pignoramento in originale, ovvero in copia conforme.

Nel vigore della precedente disciplina, però, la carenza di tali atti non era rilevabile d’ufficio dal Giudice, ma doveva essere oggetto di opposizione agli atti esecutivi.

Il legislatore del 2014, nel ridisegnare completamente la fase di iscrizione a ruolo e formazione del fascicolo d’ufficio ha ritenuto di onerare – a pena di inefficacia del pignoramento – il creditore di depositare copie conformi degli atti di cui si discute.

Il creditore, quindi, non deve limitarsi a depositare una copia degli atti richiamati dal disposto di cui all’art. 557 co. 2, ma deve depositare una copia conforme di tali atti.

Come più sopra evidenziato, del resto, originariamente doveva essere depositato l’originale del titolo che poteva essere sostituito con copia autentica dello stesso a norma dell’art. 488, co. 2, c.p.c.

La questione della conformità del titolo all’originale è strettamente connesso al possesso del titolo esecutivo quale presupposto processuale dell’azione esecutiva.

Ove il creditore difettasse del possesso del titolo, infatti, l’ufficiale giudiziario non potrebbe eseguire il pignoramento. Nel corso della procedura, poi, la perdita del possesso del titolo determina rilevanti conseguenze in quanto lascia presumere o che il credito incorporato nel titolo sia stato ceduto (v. ad es. art. 1262 oc.) o che sia stato pagato (v. ad es. art. 1199 ce). Per tale ragione, in mancanza dell’esibizione del titolo in originale, quando richiesto, il giudice dell’esecuzione non potrebbe compiere l’atto esecutivo richiesto dal creditore sprovvisto del possesso materiale del titolo.

L’attestazione di conformità, in tale prospettiva, non costituisce una mera formalità in quanto il difensore del creditore, per potere attestare che la copia è conforme all’originale, deve avere avanti a sé l’originale da collazionare con la copia. In altri termini, deve avere il possesso de! titolo. In mancanza del deposito dell’attestazione di conformità, pertanto, ciò che il giudice dell’esecuzione non è messo in grado di conoscere è se il creditore abbia o meno il possesso del titolo o sia o meno legittimato all’esercizio del diritto incorporato nel titolo. Tale questione e cioè il difetto di possesso del titolo, come più sopra detto, era originariamente demandata ad un’opposizione agli atti esecutivi, mentre oggi è rilevabile d’ufficio e sanzionata con l’inefficacia del pignoramento compiuto.

La tesi del raggiungimento dello scopo dell’atto, allora, non risulta razionalmente perseguibile. Innanzitutto deve rilevarsi che la teorica relativa al raggiungimento delio scopo dell’atto attiene alla categoria della nullità e non dell’inefficacia dell’atto per il suo mancato tempestivo

In secondo luogo, una volta che il legislatore abbia fissato un termine preclusivo per il deposito di un atto, non ha alcun senso affermare che lo stesso abbia raggiunto il suo scopo, se è stato depositato tardivamente.

In altri termini, ciò che conta non è il disposto di cui all’art. 156 c.p.c, quanto piuttosto il disposto di cui all’art. 153 c.p.c. che preclude alla parte la possibilità di svolgere l’attività processuale conseguente (il deposito dell’istanza di vendita, nel caso di specie), ove non sia stata tempestivamente svolta l’attività processuale precedente (il deposito nei termini di legge di copie conformi degli atti di cui all’art. 557, co. 2, c.p.c).

Per esemplificare, così come non ha senso chiedersi se abbia raggiunto il suo scopo l’istanza di vendita depositata scaduti i termini di cui all’art. 497 c.p.c, ugualmente non ha senso chiedersi se abbia raggiunto il suo scopo il deposito tardivo delle copie conformi degli atti di cui all’art. 552 epe.

Sotto diverso angolo prospettico – qualora fosse possibile scindere gli atti di cui parla l’art, 557 c.p.c. dalla loro necessaria attestazione dì conformità – lo scopo del deposito degli atti attestati di conformità dovrebbe essere individuato in quello di consentire un ordinato svolgersi del processo esecutivo, senza inutili rallentamenti o situazioni di quiescenza. Tali finalità sono quelle prese in considerazione dall’art. 111 Cosi, c.p.c e sono bene tenute presente nell’ambito del processo esecutivo: basti pensare, oltre al già citato art. 497 c.p.c, all’art. 567, co. 3, c.p.c. che sanziona con l’inefficacia del pignoramento il mancato deposito della documentazione ipocatastale, ovvero (allorquando sarà in vigore la relativa normativa) il disposto di cui all’art. 631 bis c.p.c. (introdotto con D.L. 83/2015 conv. in L. 132/15) che sanziona con l’estinzione del processo esecutivo il mancato pagamento de! contributo previsto per la pubblicità sul portale delle vendite pubbliche.

Il mancato deposito degli atti muniti di attestazione di conformità determinano un rallentamento nello svolgimento del processo esecutivo e, complessivamente, dell’attività dell’amministrazione della giustizia, rischiando di incidere sulla ragionevole durata del processo per espropriazione.

Il giudice dell’esecuzione, infatti, in mancanza della dichiarazione di conformità degli atti prodromici all’esecuzione e dell’atto di pignoramento non potrebbe procedere con il conferimento dell’incarico di stima dei beni staggiti e, successivamente, con la vendita dei cespiti pignorati, non avendo certezza alcuna circa il possesso di un titolo esecutivo in capo al creditore. Ciò determinerebbe la necessità di ordinare il deposito dell’attestazione, con conseguente quiescenza del processo. Eppure, dal 2005 in avanti, le riforme del legislatore vanno tutte nella chiara direzione di evitare che il processo per espropriazione possa subire ritardi non giustificati.

Se di scopo della norma (ma non dell’atto) si vuole parlare, allora, non vi è che da concludere nel senso per cui il novellato disposto di cui all’art. 557, co. 3, c.p.c. intende sanzionare il negligente comportamento della parte processuale che, pur potendo mettere l’ufficio dell’esecuzione in grado di svolgere ordinatamente e tempestivamente il proprio compito, vi frapponga un ostacolo, mancando di depositare agli atti telematici un documento equipollente agli originali a sue mani (di cui cioè abbia il possesso)

Nel proprio reclamo, inoltre, il creditore afferma che vi sarebbero state incertezze in ordine alle modalità di attestazione della conformità degli atti in mancanza delle specifiche tecniche stabilite dal responsabile per i sistemi automatizzati del Ministero della giustizia. La deduzione è inconferente in quanto le specifiche tecniche richiamate dal creditore sono quelle previste a seguito del D.L. 83/2015 convertito in L. 132/2015 dall’art. 16 (dec/es e) undecies del D.L. 179/2012 convertito in L. 221/2012, mentre, come detto, il potere di attestazione della conformità degli atti di cui all’art. 557, co. 2, c.p.c. è previsto dall’art. 16 bis del D.L. 179/2012 convertito in L. 221/2012, come modificato con D.L 132/14 convertito in L. 162/14 e per l’esercizio di tale potere non era previsto alcun rimando a normative di natura tecnica.

Conclusivamente il reclamo proposto deve essere rigettato e le spese sostenute da parte reclamante, in mancanza di attività difensiva svolta da parte reclamata devono dichiararsi irripetibili.

PQM

Definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa,

rigetta il reclamo proposto;

dichiara irripetibili le spese sostenute da parte reclamata.

Così deciso nella camera di consiglio del 29.6.2016

Il giudice est.

M. Gabriella Mennuni

Il Presidente

Cesare de Sapia

Trib. Milano, sent. 19 agosto 2016 n. 9728 (Pres. De Sapia, rel. Mennuni) Leggi tutto »

Cass. sez. III, ord. 27 marzo 2019 n. 8464 (Pres. Armano, rel. Tatangelo)

ATTENZIONE

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Notifiche a mezzo PEC – Notifica del duplicato informatico della sentenza – Inidoneità a far decorrere il termine breve di impugnazione – Non sussiste – Attestazione di conformità – Mancanza – Irrilevanza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

composta dai signori magistrati:

dott. Uliana ARMANO – Presidente

dott. Marco ROSSETTI – Consigliere

dott. Augusto TATANGELO – Consigliere relatore

dott. Antonella PELLECCHIA – Consigliere

dott. Paolo PORRECA – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 23551 del ruolo generale dell’anno 2017, proposto

da

A.U.R.2 (P.I.:***), in persona del Direttore Generale, legale rappresentante pro tempore

rappresentato e difeso, giusta procura in calce al/ a margine del ricorso, dagli avvocati G.M. (C.F.:***) e M.M. (C.F.:***)

-ricorrente-

nei confronti di

B.A.R. (C.F.:***)

rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dagli avvocati F.T. (C.F.:***) e E.V. (C.F.:***)

R.E. (C.F.:***)

R.M. (C.F.:***)

R.G. (C.F.: ***)

rappresentati e difesi, giusta procura in calce al controricorso, dagli avvocati A.D.V. (C.F.: ***) e L.D.V. (C.F.: ***)

-controricorrenti-

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Roma n. NN/AAAA, pubblicata in data 17 agosto 2017;

udita la relazione sulla causa svolta alla camera di consiglio del 10 dicembre 2018 dal consigliere Augusto Tatangelo.

Fatti di causa

I coniugi G.R. e A.R.B. hanno agito in giudizio nei confronti della A.R.C (oggi A.U.R.2) per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti a trattamenti sanitari inadeguati praticati al R. presso l’Ospedale CTO di Roma.

La domanda è stata accolta dal Tribunale di Roma, che ha condannato la A. a pagare l’importo di € 762.758,00 in favore del R. e quello di C 120.000,00 in favore della B., oltre accessori.

La Corte di Appello di Roma ha dichiarato inammissibile (in quanto tardivo) l’appello proposto dalla A.R.2.

Ricorre la A.R.2, sulla base di tre motivi.

Resistono, con distinti controricorsi, A.R.B. (anche quale erede del R.) e gli altri eredi di G.R. (E., M. e G.R.).

Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale dott. Tommaso Basile, ha depositato conclusioni scritte ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., chiedendo il rigetto del ricorso.

Hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c. la B., nonché M. e G.R..

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza».

Con il secondo motivo si denunzia «violazione e falsa applicazione di norme di legge ed erronea applicazione dell’art. 23 D. Lgs. 82/05».

Con il terzo motivo si denunzia «erronea applicazione dell’art. 160 cpc».

I tre motivi del ricorso sono logicamente connessi e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Essi sono inammissibili, sotto vari profili.

Si premette che con il primo motivo è stata avanzata una censura (omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza) non più prevista come motivo di ricorso per cassazione, in base all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c.. In ogni caso la motivazione della decisione nella sentenza impugnata è certamente presente e non è né apparente né insanabilmente contraddittoria sul piano logico; come tale essa non è censurabile nella presente sede.

Il terzo motivo risulta inoltre del tutto generico e sostanzialmente apodittico.

L’intero ricorso è comunque inammissibile per difetto di specificità, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., e perché non contiene la censura di tutte le autonome rationes decidendi poste a fondamento della decisione impugnata.

La questione in discussione è quella della idoneità della notificazione alla ASL della sentenza di primo grado, effettuata dagli attori vittoriosi a mezzo PEC, a far decorrere il termine breve per l’impugnazione.

L’azienda ricorrente non nega di avere ricevuto la notificazione, né denunzia concrete difformità tra il testo della sentenza notificato e quello originale, bensì esclusivamente vizi che in sostanza attengono alla regolarità formale della relazione di notificazione e delle attestazioni e dichiarazioni da allegare alla stessa, con riguardo alla conformità dell’atto notificato all’originale, secondo le previsioni della normativa vigente (contesta, segnatamente, l’idoneità della notifica del duplicato informatico della sentenza ai fini dell’art. 285 c.p.c.; denunzia inoltre la mancanza, nella specie, dell’attestazione di conformità come prevista dall’art. 16 bis n. 9 D.L. 179/2012, della dichiarazione di estrazione del documento nel rispetto delle regole tecniche di cui all’art. 71 CAD e dell’indicazione del numero del file, prevista dall’art. 19 ter del D.M. n. 44 del 21 febbraio 2011, come modificato dal D.M. 28 dicembre 2015), irregolarità da cui fa discendere la nullità della notificazione stessa.

Essa non richiama però nel ricorso lo specifico contenuto della relazione di notificazione e dei relativi allegati, nella parte in cui tale contenuto risulti rilevante ai fini della comprensione e della valutazione delle censure da lei proposte, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c..

D’altra parte, la corte territoriale, dopo avere affermato che, essendo stato notificato un duplicato informatico della sentenza e non una copia informatica di essa, non erano necessarie attestazioni di conformità tra originale e copia (onde la notificazione del duplicato era regolare ed idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione), ha testualmente affermato che «in ogni caso, anche a prescindere da queste considerazioni, vale il principio generale secondo cui la notifica della sentenza può essere dichiarata nulla solo se il destinatario deduca e dimostri che l’incompletezza gli abbia precluso la compiuta conoscenza dell’atto, incidendo negativamente sul pieno esercizio della facoltà di impugnazione», e che «nella fattispecie, inoltre, non si tratterebbe nemmeno di nullità, perché siamo fuori dai casi individuati dall’art. 160 cod. proc. civ., ma di una mera irregolarità – e non risulta nemmeno dedotta una difformità tra il contenuto della copia della sentenza notificata e quello dell’originale …».

Il provvedimento è cioè sostenute da tre distinte e autonome rationes decidendi, che in ordine logico possono essere così sintetizzate: a) la notificazione della sentenza è valida e regolare; b) i vizi dedotti dalla ASL potrebbero comportare al più una mera irregolarità della suddetta notificazione, ma non la sua nullità, ai sensi dell’art. 160 c.p.c.; c) se anche la notificazione in questione fosse nulla, la nullità non potrebbe essere dichiarata, in mancanza di allegazione e dimostrazione di un pregiudizio che abbia precluso al destinatario della notifica la compiuta conoscenza dell’atto e impedito il pieno esercizio del suo diritto di difesa.

La ricorrente censura la prima ratio decidendi (in particolare, con i primi due motivi di ricorso), nonché la seconda (con il terzo motivo), ma non censura affatto la terza ratio decidendi, che è da sola idonea a fondare la decisione impugnata.

Anche per tale ragione il ricorso è inammissibile.

La decisione impugnata – lo si osserva a fini di completezza espositiva – è comunque conforme al costante indirizzo espresso in materia da questa Corte, anche a Sezioni Unite, secondo il quale l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dell’atto ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (cfr. Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 24568 del 05/10/2018, Rv. 651155 – 03; Sez. U, Sentenza n. 23620 del 28/09/2018, Rv. 650466 – 02; Sez. L, Ordinanza n. 20747 del 16/08/2018, Rv. 650245 – 03; Sez. 2, Ordinanza n. 14818 del 07/06/2018, Rv. 648851 – 01, con specifico riguardo alla mancata indicazione del nome del relativo file all’interno dell’attestazione di conformità della copia informatica dell’atto processuale notificato; Sez. 1, Sentenza n. 20625 del 31/08/2017, Rv. 645225 – 01; Sez. U, Sentenza n. 7665 del 18/04/2016, Rv. 639285 – 01).

Sempre per completezza espositiva, pare inoltre opportuno osservare che:

– da nessuna disposizione normativa sembra potersi evincere che il duplicato informatico della sentenza non sia idoneo alla notificazione, ai fini del decorso del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.;

– dalla relazione di notificazione della sentenza di primo grado trascritta nei controricorsi (pag. 11 del controricorso B.; pag. 2 e 3 dell’altro controricorso) sembra emergere addirittura che in essa fosse indicato il numero della sentenza e vi fosse l’attestazione che l’atto notificato era un duplicato dell’originale informatico, il che costituisce nella sostanza una vera e propria attestazione di conformità (tenuto conto del fatto che, da una parte, il “duplicato” è per sua stessa natura una “copia conforme all’originale”, e d’altra parte, nella specie, è pacifico che si tratti di un “duplicato informatico” e non di una “copia”, laddove la normativa distingue tra le due nozioni in senso tecnico, onde l’attestazione stessa risulterebbe anche sotto questo profilo del tutto corretta).

2. Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, cc). 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228.

per questi motivi

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– condanna l’ente ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, liquidandole: a) per A.B., in complessivi € 7.000,00, oltre € 200,00 per esborsi, nonché spese generali ed accessori di legge; b) per E., M. e G.R., in complessivi € 7.000,00, oltre € 200,00 per esborsi, nonché spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228, per il versamento, da parte dell’ente ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, in data 10 dicembre 2018.

Il presidente

Uliana ARMANO

Cass. sez. III, ord. 27 marzo 2019 n. 8464 (Pres. Armano, rel. Tatangelo) Leggi tutto »

Cass., sez. lav., ord. 1 aprile 2019 n. 9029 (Pres. Nobile, rel. Blasutto)

ATTENZIONE

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Procedimento civile – Termini per l’impugnazione – Decorrenza – Modalità di redazione e trasmissione della sentenza – Formato cartaceo e formato elettronico – Differenze

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIO NOBILE – Presidente –

Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE – Consigliere –

Dott. ROSA ARIENZO – Consigliere –

Dott. DANIELA BLASUTTO – Rel. Consigliere  –

Dott. CARLA PONTERIO – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso NN-AAAA proposto da:

M.M. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, ***, presso lo studio dell’avvocato F.P., che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato R.R.;

– ricorrente –

contro

O.S. C.D.L.P., A.A.C.C., E.P.D.O., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, ***, presso lo studio dell’avvocato M.T., che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. NN/AAAA della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 11/07/2016 R.G.N. NN/AAAA.

RILEVATO CHE

1. La Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, con sentenza n. NN/2016, ha dichiarato antisindacale la condotta tenuta da M.M. s.p.a. in occasione dello sciopero proclamato il 20 gennaio 2011 dall’O.S. C.D.L.P.; ha ordinato alla società di cessare immediatamente la condotta illecita e di astenersi per il futuro dall’utilizzare il potere disciplinare per limitare il diritto di sciopero; per l’effetto, ha annullato le sanzioni disciplinari irrogate ai lavoratori indicati nel ricorso ex art. 28 Stat. lav..

2. Per la cassazione di tale sentenza M.M. s.p.a. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso C.D.L.P..

3. Preliminarmente, l’O.S. resistente ha eccepito la tardività del ricorso ex art. 327 cod. proc. civ. perché avviato alla notifica il 13 gennaio 2017, oltre il termine di sei mesi previsto dalla predetta norma e decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza, avvenuta I’11 luglio 2016 mediante deposito in cancelleria.

4. Parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., per contrastare la suddetta eccezione. Ha dedotto che la sentenza era stata comunicata dalla cancelleria via pec in data 14 luglio 2016, ai sensi dell’art. 133 cod. proc. civ. e che, quindi, ai fini della decorrenza del termine per impugnare, occorreva avere riguardo a tale adempimento, da cui la tempestività e l’ammissibilità del ricorso per cassazione. Deduce che una diversa soluzione interpretativa imporrebbe alle parti interessate l’onere di recarsi quotidianamente in cancelleria, a partire dal giorno successivo alla discussione, per verificare l’avvenuto deposito del provvedimento completo di motivazione, al fine di evitare di incorrere nella decadenza.

CONSIDERATO CHE

1. Preliminarmente, va rilevata la tardività del ricorso per cassazione ex art. 327 cod. proc. civ., in quanto avviato alla notifica in data 14 gennaio 2017, oltre il compimento del termine di decadenza di sei mesi (applicabile ratione temporis), termine scaduto l’11 gennaio 2017 (coincidente con un mercoledì) e decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza, avvenuta con il suo deposito nella cancelleria del giudice a quo.

2. Occorre premettere che la sentenza impugnata non è stata redatta in formato elettronico, ma in formato cartaceo e risulta depositata in cancelleria in data 11 luglio 2016, come da attestazione del funzionario apposta in calce al provvedimento. Ai fini della decorrenza del suddetto termine, è rilevante soltanto l’attestazione dell’avvenuto deposito e non la diversa data (14 luglio 2016) della successiva comunicazione di cancelleria avvenuta via PEC alle parti.

3. Non trova applicazione la disciplina dettata per le sentenze redatte in formato elettronico, in cui è dal momento della trasmissione del provvedimento per via telematica mediante PEC che il procedimento decisionale è completato e si esterna, divenendo il provvedimento, dalla relativa data, irretrattabile dal giudice che l’ha pronunciato e legalmente noto a tutti, con decorrenza del termine lungo di decadenza per le impugnazioni ex art. 327 cod. proc. civ. (Cass. n. 17278 del 2016). Questa Corte ha precisato che, nel caso di redazione della sentenza in formato elettronico, la relativa data di pubblicazione, ai fini del decorso del termine cd. “lungo” di impugnazione, coincide non già con quella della sua trasmissione alla cancelleria da parte del giudice, bensì con quella dell’attestazione del cancelliere, giacché è solo da tale momento che la sentenza diviene ostensibile agli interessati (Cass. n. 24891 del 2018).

4. È sempre con riguardo all’ipotesi che alla redazione integrale della sentenza provveda direttamente il giudice estensore in formato elettronico che questa Corte, a Sezioni Unite, si è pronunciata precisando che: “dal momento in cui il documento, conforme al modello normativo (art. 132 cod. proc. civ., e art. 118 disp. att. cod. proc. civ.), è consegnato ufficialmente in cancelleria – ovvero è trasmesso in formato elettronico per via telematica mediante PEC (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 48) – il procedimento della decisione si completa e si esterna e dalla relativa data la sentenza diviene irretrattabile dal giudice che l’ha pronunziata; è legalmente nota a tutti; inizia a decorrere il termine lungo di decadenza per le impugnazioni di cui all’art. 327 cod. proc. civ., comma 1; produce tutti i suoi effetti giuridici” (cfr. Cass., Sez. Un., 10 agosto 2012, n. 13794).

5. Al di fuori di tale ambito, trova applicazione la regola secondo cui il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione (Cass. S.U. n. 18569 del 2016).

6. Non risulta neppure prospettato da parte ricorrente che nel caso in esame l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico si fosse perfezionato in data successiva a quella del deposito, sicché non è applicabile il principio sancito da Sezioni Unite n. 18569 del 2016 secondo cui, in caso di apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, il giudice deve accertare – attraverso istruttoria documentale ovvero ricorrendo a presunzioni semplici, o, infine, alla regola di cui all’art. 2697 cod. civ. – il momento in cui la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo.

7. In presenza di un’unica attestazione di deposito, trova applicazione il consolidato principio secondo cui, l’attestazione con la quale il cancelliere, ai sensi del secondo comma dell’art. 133 cod. proc. civ., dà atto del deposito della sentenza, costituisce atto pubblico la cui efficacia probatoria, ex art. 2700 cod. civ..

8. La pubblicazione della decisione si ha con l’attestazione del cancelliere, attestazione, che, appunto, ha la funzione di pubblicare la stessa. Da tale momento la sentenza diviene ostensibile agli interessati, con la logica ricaduta che da questo momento il temine lungo per impugnare inizia a decorrere. L’impugnabilità nel termine attualmente fissato in sei mesi, nel caso in cui la sentenza non risulti essere stata notificata, poggia sul presupposto che essa sia appunto conoscibile alla parte, pur attraverso la necessaria intercessione del difensore.

9. Né la decadenza da un termine processuale, ivi compreso quello per impugnare, può ritenersi incolpevole e giustificare, quindi, la rimessione in termini, ove sia avvenuta per errore di diritto, atteso che il termine di cui all’art. 327 cod. proc. civ. decorre dalla pubblicazione della sentenza mediante deposito in cancelleria, a prescindere dal rispetto, da parte della cancelleria medesima, degli obblighi di comunicazione alle parti, e che, inoltre, rientra nei compiti del difensore attivarsi per verificare se siano state compiute attività processuali a sua insaputa (cfr. Cass. n. 5946 del 2017). Ed infatti, l’art. 327 cod. proc. civ. opera un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa, poiché l’ampiezza del termine consente al soccombente di informarsi tempestivamente della decisione che lo riguarda e la decorrenza, fissata avuto riguardo alla pubblicazione, costituisce corollario del principio secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sentenza ad istanza di parte, sicché lo spostamento del dies a quo dalla data di pubblicazione a quella di comunicazione non solo sarebbe contraddittorio con la logica del processo, ma restringerebbe irrazionalmente il campo di applicazione del termine lungo di impugnazione alle parti costituite in giudizio, alle quali soltanto la sentenza è comunicata ex officio (Cass. n. 26402 del 2014).

10. Giova osservare, altresì, che con l’art. 16, comma 3, d.l. n. 179 del 2012, conv. in I. n. 221 del 2012, il legislatore ha modificato il secondo comma dell’art.45 disp.att.c.p.c., disponendo che il biglietto di cancelleria deve contenere “il testo integrale del provvedimento comunicato”. Al quarto comma del medesimo art. 16 ha previsto che “Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”. Il legislatore è poi intervenuto sull’art.133, secondo comma, cod. proc. civ., con l’art. 45, primo comma lett.b), d.l. n. 90 del 2014, precisando che: “Il Cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma, ed entro cinque giorni, mediante biglietto di cancelleria contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti che si sono costituite”. Il legislatore è intervenuto in sede di conversione del d.l. n. 90 del 2014, aggiungendo al comma 2 dell’art. 133 cod. proc.civ. che “La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’articolo 325”. Pertanto, in via generale, la comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria, non è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione.

11. Peraltro, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte, la modifica normativa non ha inciso sulle norme processuali, derogatorie e speciali, che collegano la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria, come è stato chiarito da una serie di successive pronunce intese a definire l’ambito di applicazione della novella. E’ stato infatti affermato che la modifica dell’art. 133 cod. proc. civ., secondo cui “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325”, attiene al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria, sicché non può investire, neppure indirettamente, le previsioni speciali che appunto in via derogatoria, comportino la decorrenza di termini – anche perentori – dalla semplice comunicazione del provvedimento. Nell’ambito delle controversie di lavoro, è il caso previsto dall’art. 1, commi 58 e 62, legge n. 92 del 2012.

12. Dunque, al di fuori di tali ipotesi, la regola generale per i provvedimenti depositati in forma cartacea è che la comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria non incide sulla decorrenza dei termini per l’impugnazione, per cui trova applicazione il termine “lungo” di cui all’art. 327 cod. proc. civ., decorrente dal deposito del provvedimento, nel caso che nessun interessato abbia provveduto alla notificazione di propria iniziativa.

13. Per tali assorbenti motivi, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

14.Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma1-bis, dello stesso articolo 13.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21 febbraio 2019

Il Presidente

Vittorio Nobile

Cass., sez. lav., ord. 1 aprile 2019 n. 9029 (Pres. Nobile, rel. Blasutto) Leggi tutto »