App. L’Aquila, sez. lav., sent. 23 ottobre 2014 (pres. Sannite, est. De Nisco)

Concisa esposizione delle ragioni in fatto e diritto

R. L. ha proposto appello avverso la sentenza in epigrafe, con la quale il Tribunale di Avezzano ha rigettato il suo ricorso teso alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento disciplinare, irrogatogli dalla S.I. s.p.a. in data 9/11/2011 per avere svolto attività lavorativa presso la propria azienda agricola mentre si trovava in congedo per malattia, con conseguente richiesta di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione.

A fondamento dell’impugnazione ha dedotto l’erroneità della decisione: 1) per avere il giudice di primo grado ritenuto violato l’obbligo di correttezza contrattualmente previsto pur in mancanza di prova, da porre a carico del datore di lavoro, in ordine al fatto che l’attività lavorativa svolta abbia compromesso o ritardato la guarigione; 2) l’erroneità della decisione per violazione del principio di proporzionalità, in quanto l’inadempimento dedotto non è stato di particolare gravità, tenuto conto che la sua durata è stata indicata dai sanitari di una struttura pubblica e che non vi è stata alcuna condotta fraudolenta tesa a prolungarne la durata; 3) l’omessa motivazione in ordine alla non utilizzabilità degli accertamenti svolti dal datore di lavoro in quanto estranei al disposto di cui all’art. 5 Stat. Lav. e di incerta provenienza.

La S.I. s.p.a. ha resistito al gravame chiedendone il rigetto, eccependo in via preliminare l’inammissibilità e/o improcedibilità dell’appello in quanto depositato oltre il termine di 30 dalla notifica della sentenza di primo grado e per violazione dell’art. 434 c.p.c..

La Corte, udita la discussione orale, ha pronunciato la seguente sentenza ai sensi dell’art.281 sexies c.p.c., dando lettura in udienza all’esito della camera di consiglio, del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

In via preliminare deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per l’inutile decorso del termine di 30 giorni di cui al primo comma dell’art. 325 c.p.c..

Se è pur vero che la s.p.a. S.I. ha provveduto a notificare ai sensi dell’art. 82 RD 37/34 la sentenza impugnata presso la cancelleria del Tribunale di Avezzano (cfr. originale nel fascicolo di parte appellata), sul presupposto dalla mancata elezione di domicilio dell’odierno appellante nella circoscrizione del predetto Tribunale adito, è anche vero che costituisce ormai principio di diritto consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte quello per cui “l’art. 82 RD 37/1934 – che prevede che gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, e che in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria – trova applicazione in ogni caso di esercizio dell’attività forense fuori dalla circoscrizione cui l’avvocato è assegnato per essere iscritto al relativo ordine professionale del circondario e quindi anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d’appello e l’avvocato risulti essere iscritto ad un ordine professionale di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d’appello, ancorché appartenente allo stesso distretto della medesima corte d’appello. Tuttavia, dopo l’entrata in vigore delle modifiche degli artt. 366 e 125 cpc, apportate rispettivamente dall’art. 25, comma primo, lett. f), n. 1), L 183/2011, e dallo stesso art. 25, comma primo, lett. a), quest’ultimo modificativo a sua volta dell’art. 2, comma 35- ter, lett. a), DL. 13 agosto 2011, n. 138 , conv. in L 14 settembre 2011, n. 148, e nel mutato contesto normativo che prevede ora in generale l’obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, si ha che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio di cui all’art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 cpc., non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine” (cfr. Cass. Sez. Un. Sent. n. 10143 del 20/6/2012; n 6752 del 18/03/2013; n. 7658 del 27/03/2013). Orbene nel caso di specie poiché nell’intestazione del ricorso il procuratore dell’appellante aveva specificato il proprio indirizzo di posta elettronica certificata comunicato a proprio ordine (***@***.***), lo stesso non poteva ritenersi domiciliato ex lege in cancelleria. La notifica della sentenza impugnata presso la Cancelleria del Tribunale di Avezzano non appare pertanto idonea a far decorrere il termine decadenziale breve per l’impugnazione.

Sempre in via preliminare deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’appello, atteso che il R. non solo ha indicato le parti della sentenza che non condivide, ma ha anche svolto una diversa ricostruzione dei fatti e dell’onere probatorio posto a carico delle parti che, ove condiviso, avrebbe comportato l’accoglimento del ricorso.

Nel merito l’appello non appare meritevole di accoglimento.

In punto di fatto la circostanza che il R. abbia posto in essere le condotte specificamente indicate nella lettera di contestazione del 28/10/2011 si desume non solo dalla relazione investigativa redatta dall’agenzia MC su incarico della società appellata, ma anche e soprattutto dalla nutrita documentazione fotografica ad essa allegata, nella quale l’appellante viene ripreso nello svolgimento delle attività descritte nella relazione medesima (elemento questo che nella stessa prospettiva dell’appellante è sufficiente “ad evitare il rischio di descrizioni non rispondenti al vero, acquisite e utilizzate per giustificare licenziamenti che non sarebbero legittimi” -cfr pag. 3 del ricorso di primo grado). Inoltre il R. né in sede disciplinare né in questa sede ha mai negato di avere effettivamente svolto le attività contestate. Correttamente quindi il giudice di primo grado non ha ammesso le prove per testi articolate dalla S.I. a mezzo degli investigatori che hanno proceduto alla osservazione.

Orbene, poiché risulta specificamente individuato il soggetto giuridico che ha proceduto ai controlli e poiché gli stessi non sono finalizzati all’accertamento della sussistenza o meno della malattia del lavoratore, ma dello svolgimento da parte dello stesso di una diversa attività lavorativa (sicché del tutto inconferente appare il richiamo all’art. 5, secondo comma, della L. 300/70, il quale stabilisce che il controllo delle infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, che come strutture pubbliche sono tali da offrire garanzie di obiettività), il terzo motivo di appello deve essere rigettato.

Parimenti infondato è il primo motivo di appello.

Il positivo accertamento che l’appellante durante l’assenza per malattia ha svolto una diversa attività lavorativa, poneva a carico dello stesso l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche. A riguardo questa Corte ritiene infatti di aderire all’indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente (cfr. Cass. n. 21093 del 7/10/2014; n. 17625 del 5/8/2014; n. 26290 del 25/11/2013; n. 5809 del 8/3/2013; n. 15916 del 19/12/2000; n. 3647 del 13/4/1999; n. 11142 21/10/1991)’ per cui “nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente, indubbiamente secondo il principio sulla distribuzione dell’onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, e quindi la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche”. In senso contrario non possono condividersi le conclusioni dell’unico arresto giurisprudenziale (la sentenza n. 5809/2013 contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante ribadisce l’orientamento consolidato di cui sopra) della Corte di Cassazione costituito dalla sentenza n. 4869 del 28/2/2014, per una serie di motivi. Innanzitutto la citata sentenza in motivazione non spiega le ragioni per cui si discosta dal principio di diritto univocamente affermato fino a quel momento, richiamato nelle premesse; in secondo luogo la stessa appare superata da altre due pronunce che ribadiscono come l’onere probatorio di cui si discute è da porre a carico del lavoratore; in terzo luogo tale ultima distribuzione dell’onere probatorio appare più coerente con la riconduzione dei fatti oggetto di prova nell’alvo di quelli aventi efficacia modificativa o estintiva. Ed invero, la malattia che legittima l’assenza dal luogo di lavoro non coincide con la malattia definita dalla scienza medica, in ambito lavoristico: il concetto di malattia rilevante ai sensi dell’art. 2110 c.c. è infatti soltanto quello che impedisce una regolare prestazione lavorativa. Pertanto, se la malattia che giustifica l’assenza può consentire comunque lo svolgimento di altra attività lavorativa (la cui prova deve essere offerta dal datore di lavoro), non può che essere onere del prestatore di lavoro fornire la prova della compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche. Ciò anche alla luce dell’obbligo posto a carico del lavoratore di offrire una prestazione parziale, alla quale era idoneo, al datore di lavoro, che, esercitando lo ius variandi nel rispetto dell’art. 2103 c.c.’ ben avrebbe potuto temporaneamente assegnare il lavoratore a mansioni, equivalenti a quelle originarie, compatibili con la malattia (cfr. Cass. del 29/7/1998 n. 7467 a tenore della quale “Nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede il dipendente in malattia che, seppur inidoneo temporaneamente alle mansioni alle quali è assegnato dal datore di lavoro, intenda svolgere attività lavorativa presso terzi in costanza di periodo di malattia per essere non di meno idoneo a mansioni diverse, il cui espletamento non sia pregiudizievole al fine di un più rapido recupero della piena idoneità fisica, è tenuto ad offrire tale prestazione parziale al datore di lavoro, il quale – esercitando lo jus variandi di cui all’art. 2103 c.c. – potrebbe temporaneamente assegnare il lavoratore proprio a quelle mansioni, equivalenti a quelle originarie, per le quali il lavoratore sia idoneo”).

Ebbene, nella specie l’appellante non ha dedotto alcuna circostanza specifica e non ha articolato alcun mezzo istruttorio volto a provare la compatibilità delle attività svolte con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa e la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche. Gli unici rilievi tesi al confronto tra la diversa attività e quella cui era contrattualmente dovuti appaiono infatti da un lato inconferenti rispetto alla patologia accertata di trauma contusivo dell’emicostato sinistro (quale braccio fosse maggiormente impiegato è irrilevante, atteso che per comune esperienza il trauma de quo incide sulle torsioni del busto e la sintomatologia dolorosa, presente già dilatando il torace per la respirazione, si accentua con le vibrazioni e con sforzi fisici), dall’altro privi di riscontri probatori circa la modalità di agganciamento del rimorchio e della benna, dall’altro ancora omissivi in relazione ad alcune attività accertate quali l’accudimento del bestiame e il compimento di lunghi percorsi su terreni accidentati di montagna a bordo di un trattore con ovvie ripercussioni in termini di scuotimento.

Infine, inammissibile è il secondo motivo di appello, con il quale l’appellante eccepisce la non proporzionalità del provvedimento esplusivo in ragione del fatto che la malattia non era simulata, che egli non ha fraudolentemente tentato di prolungare la malattia e che comunque è rientrato in servizio al termine della prognosi di sette giorni effettuata dal Pronto Soccorso di T. Le deduzioni difensive articolate sul punto nell’atto di appello non tengono infatti in alcun conto della motivazione svolta dal giudice di primo grado, che ha ritenuto grave la condotta tenuta dal lavoratore e quindi in grado di incidere sul rapporto di fiducia con il datore di lavoro sulla base della circostanza che il R. ha destinato ben 4 dei sette giorni finalizzati al riposo e al recupero fisico allo svolgimento di lavori che implicano sforzi fisici e comunque allo svolgimento di attività diversa da quella contrattualmente dovuta e nel proprio interesse.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di L’Aquila, definitivamente pronunciando sull’appello proposto avverso la sentenza in data gg/mm/aaaa n. nn/aa del Tribunale di Avezzano in funzione di giudice del lavoro, così decide nel contraddittorio delle parti:

rigetta l’appello e condanna parte appellante al rimborso in favore della società appellata delle spese di lite liquidate nella misura di € ** oltre spese forfettarie IVA e CPA.

L’Aquila, il 23/10/2014

Il Presidente dr. Rita Sannite

Il Consigliere Est. dr. Paola De Nisco