Cass., sez. 3, sent. n. 22871 del 10 novembre 2015 (Pres. Salmè, rel. Barreca)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSEPPE SALME’                                                                                         – Presidente –

Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI                                                                    – Consigliere –

Dott. FRANCO DE STEFANO                                                                                  – Consigliere –

Dott. LINA RUBINO                                                                                                   – Consigliere –

Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA                                                                 – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso nn-aaaa proposto da:

MP, considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difesa dall’avvocato AO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

SSDEC SAS , in persona del legale rappresentante p.t. sig. EC, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ***, presso lo studio dell’avvocato RG, rappresentata e difesa dall’avvocato GC giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. nn/aaaa del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 23/01/2013 R.G.N. nn/aaaa; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2015 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato GC;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROSARIO GIOVANNI RUSSO che ha concluso per la richiesta di informazioni presso la cancelleria del giudice di merito per avere ragguagli sulla copia depositata della sentenza impugnata, in subordine il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con la decisione ora impugnata, resa all’udienza del 23 gennaio 2013, ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., il Tribunale di Napoli, pronunciando sull’appello avanzato dalla SSDEC SAS nei confronti di PM contro la sentenza del Giudice di Pace di Napoli del 23 settembre 2011, ha accolto parzialmente l’appello ed ha dichiarato inefficace l’atto di precetto opposto limitatamente all’importo di € 195,85.

La sentenza ha deciso un’opposizione all’esecuzione proposta da PM avverso l’atto di precetto intimatogli dalla società odierna resistente per il pagamento della somma complessiva di € 2.065,61, oltre interessi e spese, della quale l’opponente contestava alcune delle voci per i diritti autoliquidati dal procuratore della creditrice. Il Giudice di Pace aveva ritenuta fondata l’opposizione limitatamente all’importo complessivo di € 292,85, ed il Tribunale l’ha ridotto come sopra; ha compensato le spese del primo grado di giudizio ed ha condannato l’appellato al pagamento delle spese del secondo grado, liquidandole, in favore dell’appellante, nell’importo complessivo di € 1.050,00, oltre accessori.

2.- Avverso la sentenza PM propone ricorso affidato ad undici motivi.

SSDEC SAS (d’ora innanzi “S”) resiste con controricorso.

Parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo si deduce inesistenza giuridica della sentenza ai sensi dell’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ.. Secondo il ricorrente, poiché la sentenza contiene soltanto la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice, non sarebbe possibile l’identificazione del suo autore; la normativa che ha introdotto nell’ordinamento la firma digitale non sarebbe applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti (che, per le sentenze, non è previsto); per di più, trattandosi di sentenza emessa ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., non vi sarebbero nemmeno la certificazione ed il deposito in cancelleria.

Il ricorrente conclude osservando che, nell’attuale sistema normativo, la sentenza recante la firma digitale sarebbe mancante di sottoscrizione ai sensi dell’art. 132 n. 5 cod. proc. civ., e perciò sarebbe inesistente.

1.1.- Il motivo è infondato.

L’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ. prescrive che la sentenza debba contenere «la sottoscrizione del giudice»  e l’art. 161, comma secondo, cod. proc. civ. stabilisce che la regola di cui al primo comma (per la quale la nullità delle sentenze appellabili e ricorribili per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti di queste impugnazioni) invece “non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”.

Notevole è l’elaborazione giurisprudenziale concernente due distinti profili interpretativi di quest’ultima disposizione.

L’uno attiene ai rimedi per ovviare al vizio della sentenza mancante di sottoscrizione; l’altro, alla natura di questo vizio.

Quanto a quest’ultimo (che qui rileva), la giurisprudenza di legittimità è nel senso che la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice costituisce un requisito essenziale della giuridica esistenza del provvedimento, la cui mancanza ne determina la nullità assoluta e insanabile (equiparabile all’inesistenza giuridica), rilevabile anche d’ufficio e anche in esito al giudizio di cassazione (così, tra le altre, Cass. n. 15424/00, n. 11739/04, n. 21193/05, n. 21049/06, n. 12167/09, ord. n. 22705/10).

1.2.- Il principio è stato ridimensionato dalla recente sentenza a Sezioni Unite n. 11021/14, che, superando il contrario orientamento giurisprudenziale prevalente, ha ritenuto affetta da nullità sanabile ai sensi dell’art. 161, primo comma, cod. proc. civ., la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del relatore). In particolare, ha escluso l’equiparabilità della situazione a quella di mancanza assoluta di sottoscrizione, poiché, nel caso di sottoscrizione parziale (o insufficiente, secondo la qualificazione data dalle Sezioni Unite), non è in dubbio la provenienza della sentenza dal collegio che vi appare come organo giurisdizionale decidente.

Il rigore del principio generale risulta altresì attenuato dall’interpretazione che, da tempo, questa Corte ha dato all’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ. in caso di firma illeggibile. Si trova ripetuta l’affermazione per la quale non costituisce motivo di nullità della sentenza l’illeggibilità della firma del giudice, a meno che essa non consista in un segno informe privo di qualsiasi identità, al punto da risolversi in una vera e propria mancanza di sottoscrizione (così già Cass. n. 2040/78, n. 6292/83), cui si aggiunge che l’illeggibilità del tratto grafico non è equiparabile al difetto di sottoscrizione, se il nome ed il cognome del giudice siano ricavabili da altre parti del documento (così Cass. n. 5635/90; cfr., nello stesso senso, anche Cass. n. 7634/94, n. 943/95). Entrambe le affermazioni vengono a specificarsi nel seguente principio di diritto: «la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, costituente requisito della sua esistenza giuridica a norma dell’art. 161, secondo comma, cod. proc. civ., deve essere costituita da un segno grafico che abbia caratteristiche di specificità sufficienti e possa quindi svolgere funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva, pur nella sua eventuale illeggibilità (la quale non inficia la idoneità della sottoscrizione se sussistono adeguati elementi per il collegamento del segno grafico con un’indicazione nominativa contenuta nell’atto)» (Cass. n. 7928/00, n. 7713/02, n. 11471/03, n. 28281/11).

Si desume da quest’ultimo indirizzo, ma anche dal revirement segnato dalle Sezioni Unite nel 2014, che la sottoscrizione della sentenza è elemento essenziale perché la sentenza sia riconoscibile come tale e ne sia resa palese la provenienza dal giudice che l’ha deliberata.

Quest’ultimo è lo scopo per il quale l’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ. prescrive il requisito della sottoscrizione. La mancanza di sottoscrizione invalida la sentenza perché impedisce, non tanto (e non solo) la completa formazione di un documento, quanto il perfezionamento di un atto processuale (costituito dal provvedimento del giudice qualificabile come “sentenza” ai sensi degli artt. 131 e seg. cod. proc. civ.): il vizio sussiste quando è impossibile la riconducibilità del provvedimento che è espressione dell’attività giurisdizionale al giudice che ne è l’autore. Per contro, non è affetta da nullità la sentenza recante un segno grafico che consenta la riconducibilità al giudice sia dell’atto del processo che, quindi, della decisione.

Non è certo questa la sede per intrattenersi sulla distinzione tra sentenza come giudizio e sentenza come provvedimento destinato a documentare o a rappresentare il giudizio.

E’ sufficiente osservare, quanto al profilo formale del provvedimento, che già il codice di rito consente che il giudice non sia l’autore materiale dell’attività di scritturazione, per come si desume dalla norma (oramai desueta) dell’art. 119 disp. att. cod. proc. civ., e comunque che la scritturazione sia attività da compiersi, pur sempre per iscritto, ma anche con mezzi meccanici.

Invece, l’attività di sottoscrizione è attività che il codice ascrive personalmente al giudice.

I richiami giurisprudenziali di cui sopra dimostrano che lo scopo dell’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ. è stato ritenuto raggiunto anche in caso di sottoscrizione, in sé, non riconoscibile, né leggibile, e nemmeno completa, purché composta di segni che consentano di collegarla con chi risulti autore della sentenza da altri elementi contenuti nello stesso provvedimento. Nel sistema del codice, la sottoscrizione è intesa come segno grafico materialmente proveniente dal giudice.

La sottoscrizione deve essere apposta di pugno dal soggetto che si appropria, per il tramite di essa, della paternità del provvedimento e perciò è legata alla sua persona, quindi necessariamente autografa.

1.3.- Occorre allora delibare, per un verso, se la firma digitale consente di individuare con certezza l’autore del provvedimento e, per altro verso, se, pur non essendo autografa, sia idonea a perfezionare l’atto processuale, cioè a determinare l’esistenza della sentenza come provvedimento del giudice.

La sentenza impugnata è stata allegata al verbale dell’udienza del 23 gennaio 2013, ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ.; è stata redatta dal giudice in formato elettronico, è stata sottoscritta con firma digitale ed è stata depositata telematicamente nel fascicolo informatico. Sulla copia cartacea della sentenza (ottenuta mediante il software in dotazione agli uffici giudiziari denominato “Consolle del Magistrato”) non figura alcuna firma autografa del giudice (ma sul margine destro di ciascuna delle quattro pagine di cui è composta vi sono una coccarda e la dicitura “Firmato Da: …omissis…” seguita dal cognome e dal nome del giudice in caratteri stampatello e dall’ulteriore dicitura: “Emesso da: POSTECOM CA2 Serial#:7b365”).

La copia autentica (cartacea) prodotta unitamente al ricorso ai fini della sua procedibilità, ai sensi dell’art. 369, comma secondo, n. 2 cod. proc. civ., reca un’ultima pagina, contenente in alto il numero della sentenza (n. 1073/13), il sigillo della Repubblica Italiana e quindi l’attestazione di conformità all’originale con data e sottoscrizione autografa del cancelliere.

1.3.1.- La sentenza è stata redatta con gli strumenti di cui all’art. 16 del Provvedimento 18 luglio 2011 contenente le “Specifiche tecniche previste dall’articolo 34, comma l del decreto del Ministro della giustizia in data 21 febbraio 2011 n. 44, recante regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione, nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2 del decreto legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010, n. 24“, pubblicato sulla G.U. n. 175 del 29 luglio 2011 (attualmente, sostituito dal Provvedimento 16 aprile 2014).

L’art. 4 del decreto legge n. 193 del 2009, convertito nella legge n. 24 del 2010, intitolato “misure urgenti per la digitalizzazione della giustizia” ha esteso al processo civile i principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 e successive modificazioni (codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.). Perciò, quest’ultimo costituisce, attualmente, l’apparato legislativo di riferimento qualora gli atti processuali di cui agli artt. 121 e seg. cod. proc. civ., ed in specie i provvedimenti del giudice, siano contenuti in documenti informatici. Quest’ultima eventualità è consentita, appunto, dal testo del menzionato art. 4 laddove presuppone “l’adozione nel processo civile […] delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione del principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82, e successive modificazioni“. Quindi i principi generali del C.A.D. sono applicabili anche in ambito processuale e le relative disposizioni costituiscono le norme con valore di legge ordinaria che, per il tramite dell’art. 4 del d.l. n. 193 del 29 dicembre 2009, convertito nella legge n. 24 del 22 febbraio 2010, disciplinano gli atti del processo civile redatti in forma di documento informatico (cfr. art. 1 lett. p e art. 20 C.A.D.) e sottoscritti con firma digitale (cfr. art. 1 lett. s e art. 21 C.A.D.).

Le disposizioni del Regolamento di cui al D.M. n. 44 del 2011, emanato in attuazione dei principi previsti dal C.A.D., ed in particolare gli artt. 11 (“formato dell’atto del processo in forma di documento informatico“) e 15 (“deposito dell’atto del processo da parte del soggetti abilitati interni“), coordinati con le norme tecniche del Provvedimento 18 luglio 2011 (oggi del Provvedimento 16 aprile 2014), rendono possibile che il magistrato («soggetto abilitato interno» secondo la definizione contenuta nell’art. 2, comma primo, lett. m, n.1, dello stesso Regolamento) rediga la sentenza in formato elettronico e la sottoscriva con firma digitale. In particolare, ai sensi del primo comma dell’appena citato art. 15, nella formulazione risultante dalla sostituzione operata dall’art. 2, comma l, lett. a), del D.M. 15 ottobre 2012 n. 209, «l’atto del processo, redatto in formato elettronico da un soggetto abilitato interno e sottoscritto con firma digitale, è depositato telematicamente nel fascicolo informatico».

1.3.2.- La firma digitale è definita dall’art. 1 lett. s) C.A.D. come «un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici». Per tali sue caratteristiche, la firma digitale, per un verso, manca di autografia, per altro verso, non è nemmeno riproducibile su un supporto analogico.

Essa non è costituita, a differenza della firma convenzionale, da un segno grafico vergato sul documento di pugno dell’autore, ma da una serie di informazioni digitali unite al documento, ed è apposta dal giudice mediante l’inserimento della sua personale “smart-card” e digitazione del “pin” (codice alfanumerico personale).

L’apposizione della firma digitale ad opera del giudice è desumibile grazie alla coccarda ed alla stringa grafica che compaiono su ciascuna delle pagine del file di copia della sentenza (il cui originale è archiviato all’interno del sistema). La coccarda e la stringa sono automaticamente inserite nella copia del documento informatico dal software in dotazione all’ufficio giudiziario al fine di dare la rappresentazione dell’apposizione della firma digitale.

Dalle specifiche tecniche di cui sopra si desume, inoltre, che l’atto del processo redatto in formato elettronico dal magistrato in tanto può essere depositato telematicamente nel fascicolo informatico in quanto sia stato previamente «sottoscritto con firma digitale». In caso di mancanza di firma digitale, il sistema informatico impedisce il deposito telematico del documento e comunque non potrebbe generare la copia recante i segni grafici attestanti la presenza di una firma digitale (coccarda e stringa).

A quanto fin qui detto si aggiunga che la conformità della copia (analogica) all’originale (informatico), da cui è tratta, è attestata dal cancelliere, ai sensi dell’art. 23, comma primo, C.A.D., in tutte le sue componenti (compresa quindi la firma) e l’attestazione del cancelliere completa la rappresentazione “esterna” dell’apposizione della firma digitale, garantendo che il documento informatico ne sia munito in originale. Pertanto, a meno che non si contesti siffatta attestazione, non rileva che gli operatori “soggetti abilitati esterni privati” (art. 2, comma primo, lett. m, n. 3, dello stesso Regolamento) non avessero (come sostenuto nella memoria del ricorrente) la possibilità di accedere all’originale digitale per poterne riscontrare direttamente l’integrità e la corrispondenza alla copia (possibilità, peraltro, garantita, a far data dall’agosto 2014 dall’art. 52 del decreto legge n. 90 del 2014, convertito con la legge n. 114 del 2014, che ha modificato l’art. 16 bis del decreto legge n. 179 del 2012, convertito con la legge n. 221 del 2012).

La firma digitale, in sé considerata, garantisce, tra l’altro, l’identificabilità del suo autore, quando il documento sia formato nel rispetto delle regole tecniche in materia di firma elettronica avanzata (cfr. art. 21, comma secondo, C.A.D., che rinvia all’art. 20, comma terzo, C.A.D.).

Ed invero col D.P.C.M. 30 marzo 2009 pubblicato sulla G.U. 6 giugno 2009 n. 129 (oggi sostituito dal D.P.C.M. 22 febbraio 2013 pubblicato sulla G.U. 21 maggio 2013 n. 117) sono state dettate le «Regole tecniche in materia di generazione, apposizione e verifica delle firme digitali e validazione temporale dei documenti informatici», ai sensi del già citato art. 20, comma terzo, C.A.D. In base a tali regole, come in vigore già alla data della sentenza impugnata, la procedura di rilascio del dispositivo di firma (“smart card“) presuppone l’identificazione certa del titolare (che materialmente lo prende in consegna) ed il dispositivo stesso è fatto in modo che la chiave privata (che non è altro che un file) non possa essere estratta e che il suo sblocco (attraverso il “pin“) avvenga all’interno del dispositivo, proprio per garantire che il file della chiave privata non sia utilizzabile se non col dispositivo stesso (sicché l’unico rischio è l’utilizzazione di questo da parte di soggetto diverso dal titolare: eventualità, nemmeno ipotizzata nel caso di specie).

Ne segue che la firma digitale, quando si trova in calce alla sentenza, soddisfa lo scopo per il quale ne è prescritta la sottoscrizione, vale a dire quello della riconducibilità del provvedimento al giudice che risulta averlo emesso e che è l’unico titolare della firma digitale (intesa come combinazione di chiavi crittografiche, pubblica e privata).

1.3.3.- Detto ciò, va precisato che il ricorrente non ha mai posto in dubbio che la sentenza qui impugnata sia stata effettivamente munita di firma digitale dal magistrato del Tribunale di Napoli che l’ha redatta in formato elettronico.

Quindi, non sono pertinenti i rilievi della parte resistente circa la necessità della presentazione della querela di falso per contestare l’attestazione di conformità all’originale effettuata, nel caso di specie, dal cancelliere, sulla copia cartacea della sentenza prodotta unitamente al ricorso.

Piuttosto, il ricorrente, oltre ad aver contestato che la firma digitale consentisse, di per sé, l’identificabilità del giudice autore della sentenza, ha contestato che la normativa sulla firma digitale fosse applicabile alla sentenza, in quanto l’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ. non è stato né abrogato né modificato ed esso presupporrebbe la «sottoscrizione» da intendersi come segno grafico apposto di pugno dal giudice in calce alla sentenza.

Superate con le argomentazioni di cui sopra le censure concernenti l’idoneità della firma digitale a consentire l’identificabilità del suo autore, quanto a quest’ultima censura (con la quale sostanzialmente si contesta che, ai sensi della normativa vigente, la «sottoscrizione» della sentenza debba essere autografa), si osserva quanto segue.

E’ innegabile che siano ontologicamente diverse la natura della sottoscrizione, intesa come atto consistente nell’apposizione, di pugno dall’autore del documento, del proprio nome e cognome, e quella della firma digitale, composta invece da una duplice sequenza crittografica di byte volta a costituire il segno personale di chi la appone.

Il Collegio ritiene che l’equiparazione dell’una all’altra, ai fini della validità della sentenza, sia possibile non per via interpretativa, ma soltanto per via legislativa. Ritiene peraltro che questa equiparazione sia stata attuata dalle norme di legge concernenti il processo civile telematico sopra richiamate. Infatti -contrariamente a quanto si assume col ricorso- queste norme sono applicabili alla sentenza, malgrado il legislatore non sia intervenuto ad adeguare direttamente l’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ., così come peraltro non è intervenuto a prevedere, modificando le relative disposizioni del codice di rito, che il requisito della forma scritta dei provvedimenti del giudice di cui agli artt. 131 e seg. cod. proc. civ. sia soddisfatto qualora si tratti di documento informatico, il cui contenuto originale è redigibile ed attingibile soltanto per il tramite della fruizione di programmi software.

Con i già menzionati artt. 11 e 15 del D.M. n. 44 del 2011 si sono previsti rispettivamente il formato dell’atto del processo in forma di documento informatico ed il suo deposito, quando redatto in formato elettronico dal giudice (quale soggetto abilitato interno).

Le norme secondarie sono attuazione di quanto disposto dal già menzionato art. 4 del d.l. n. 193 del 2009 convertito nella legge n. 24 del 2010. Questo, a sua volta, richiama, estendendoli al processo civile, i principi previsti dal “Codice dell’amministrazione digitale” portato dal D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, entrato in vigore il primo gennaio 2006, successivamente modificato dal D.Lgs. 4 aprile 2006, n.159, dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 nonchè dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221. Quest’ultima legge contiene una sezione VI intitolata «giustizia digitale», su cui il legislatore è ulteriormente intervenuto con la legge 24 dicembre 2012 n. 228, in modo da regolare le comunicazioni e le notificazioni ed il deposito degli atti processuali per via telematica.

Le linee guida dell’intero corpo normativo così sinteticamente richiamato risultano ispirate ad una piena equiparazione tra documento informatico e documento cartaceo (definito anche come “analogico”), nonché tra sottoscrizione autografa e -per quanto qui rileva- firma digitale. L’estensione di queste linee guida anche agli atti processuali si evince da quanto già esposto al precedente punto 1.3.1.

Il processo normativo di equiparazione si è completato con gli interventi del legislatore successivi alla data di pubblicazione della sentenza qui impugnata (quindi, non applicabili), ma comunque utili a comprendere la portata della normativa sulla quale sono venuti ad incidere.

Così col già citato art. 52 del decreto legge n. 90 del 24 giugno 2014, convertito con la legge n. 114 dell’11 agosto 2014, si è modificato l’art. 16 bis del decreto legge n. 179 del 2012, convertito con la legge n. 221 del 2012 (a sua volta introdotto dall’art. 1, comma 19 n. 2 della legge 24 dicembre 2012 n. 228), introducendo il comma 9 bis. Questa disposizione di legge – pur essendo destinata ad equiparare all’originale le copie informatiche ed analogiche (anche) dei provvedimenti del giudice presenti nei fascicoli informatici estratte da soggetti diversi dal cancelliere e muniti di attestato di conformità da questi soggetti, tra cui il difensore – conferma le conclusioni raggiunte circa l’estensione dei principi del C.A.D. anche agli atti del processo, specificamente ai provvedimenti del giudice. Essa, infatti, presuppone che il fascicolo informatico contenga la sentenza redatta in forma di documento informatico e “sottoscritta” con firma digitale.

Ulteriore, definitiva, conferma della previsione per legge della redazione della sentenza come documento informatico si rinviene nell’art. 16 bis, coma 9 octies, del d.l. n. 179 del 2012 convertito nella legge n. 221 del 2012, introdotto dal decreto legge 27 giugno 2015 n. 83 convertito nella legge 6 agosto 2015 n. 132, a norma del quale «Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica».

Tra le norme di legge fin qui richiamate va comunque posta in particolare risalto quella dell’art. 21, comma secondo, C.A.D., come sostituito dall’art. 14, comma l, lett. b) del decreto legislativo 30 dicembre 2010 n. 235, che consente di equiparare la firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formata nel rispetto delle regole tecniche, alla firma apposta di pugno dal soggetto autore del documento, per di più munita della presunzione di autenticità di cui all’ultimo inciso.

Alla stregua dell’impianto normativo risultante dalle norme già in vigore alla data di emanazione della sentenza impugnata -23 gennaio 2013- va perciò affermato che la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi dell’art. 15 del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione, sia perché sono garantite l’identificabilità dell’autore, l’integrità del documento e l’immodificabilità del provvedimento (se non dal suo autore), sia perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 e succ. mod., applicabili anche al processo civile, per quanto disposto dall’art. 4 del d.l. 29 dicembre 2009 n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24.

1.4.- Quanto detto consente di superare anche l’ultima delle censure poste col primo motivo di ricorso, concernente la mancanza dell’attestazione di deposito della sentenza in cancelleria.

Tenuto conto del fatto che la sentenza impugnata risulta allegata al verbale di udienza, va ribadito il principio, già affermato in riferimento alle norme del codice di rito, per il quale «la sentenza pronunciata al sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l’udienza. Invero, la previsione normativa dell’immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire, da un lato, al cancelliere il suo inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze, con l’attribuzione del relativo numero identificativo, e, dall’altro, alle parti di chiederne il rilascio di copia (eventualmente, in forma esecutiva)» (così Cass. n. 11176/15).

Il principio non subisce deroghe dalle previsioni che regolano il processo civile telematico.

Intanto, va detto che, a seguito dell’adozione delle regole tecniche sopra richiamate, l’attività di deposito telematico nel fascicolo informatico delle sentenze redatte in formato elettronico (anche quando non pronunciate ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ.) è soltanto avviata dal giudice.

E’ infatti sempre indispensabile l’intervento del cancelliere.

A seguito della modifica dell’art. 15 del Regolamento di cui al D.M. n. 44 del 2011, effettuata con l’art. 2, comma l, lett. a) e b), del D.M. n. 209 del 2012, il magistrato che ha redatto la sentenza in formato elettronico, dopo avervi apposto la propria firma digitale, non effettua personalmente il deposito, ma la norma va intesa nel senso che egli trasmette telematicamente in cancelleria il documento -corrispondente, in sostanza, alla “minuta” di cui è detto nel(l’oramai desueto) art. 119 disp. att. cod. proc. civ.- perché il cancelliere («accettando» il documento) possa provvedere al deposito (dapprima, eventualmente, in minuta) e quindi alla pubblicazione (evento, quest’ultimo, che rende definitivo il testo della sentenza, e ne impedisce la modificazione anche da parte del giudice che ne è stato autore).

Quando la sentenza non è “contestuale” ex art. 281 sexies cod. proc. civ., ma depositata ai sensi dell’art. 281 quinquies cod. proc. civ. e dell’art. 15, comma primo, del D.M. n. 44 del 2011, è riservata al cancelliere l’attività di pubblicazione ai sensi dell’art. 133, comma primo e secondo, cod. proc. civ., che comporta anche l’inserimento della sentenza nel registro relativo, con l’attribuzione del numero identificativo (art. 13 del d.m. 27 marzo 2000, n. 264 “Regolamento recante norme per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari” e legge 2 dicembre 1991, n. 399 “Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l’amministrazione penitenziaria”). A seguito dell’adozione dei registri informatizzati, l’attività risulta regolata dal D.M. 27 aprile 2009 «Nuove regole procedurali relative alla tenuta del registri informatizzati dell’amministrazione della giustizia», pubblicato nella G.U. 11 maggio 2009, n. 107. Con l’unico adempimento della “pubblicazione” riservato al cancelliere, il sistema provvede all’attribuzione alla sentenza del numero identificativo e della data di pubblicazione ai sensi e per gli effetti degli artt. 133, comma secondo, e 327, comma primo, cod. proc. civ. (e consente inoltre l’estrazione di copia, cartacea o informatica, da attestarsi conforme da parte dei soggetti abilitati- compresi i difensori a far data dall’agosto 2014).

Quando invece la sentenza è inserita nel verbale di udienza od a questo allegata ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., l’attività del cancelliere è pur sempre necessaria per l’attribuzione alla sentenza del numero identificativo e per consentirne l’estrazione di copia, ma non anche ai fini della sua pubblicazione. Ed invero, come detto, la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ. è da intendersi pubblicata con la sua lettura in udienza da parte del magistrato che ne è l’autore (cfr. Cass. n. 11176/15, anche per ulteriori riferimenti).

1.4.1.- Nel caso di specie trattasi, appunto, di sentenza inserita nel verbale di udienza; pubblicata con la sua lettura in udienza da parte del magistrato che l’ha redatta; munita del numero identificativo.

Non è fondata la censura del ricorrente secondo cui la sentenza non risulterebbe “depositata” in cancelleria.

Il cancelliere ha certificato la conformità della copia cartacea all’originale (informatico) e l’attribuzione del numero 1073/13, con un’attestazione recante la sua firma autografa ed allegata in originale al ricorso per cassazione.

Quanto attestato presuppone compiuta dal cancelliere l’attività di deposito prevista dall’ultimo inciso dell’art. 281 sexies cod. proc. civ. (a seguito dell'”accettazione” – secondo le regole tecniche del processo civile telematico – di un documento informatico costituito dal verbale di udienza contenente la sentenza).

In conclusione il primo motivo di ricorso va rigettato.

2. – Col secondo motivo si deduce nullità od inesistenza della sentenza ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. perché vi è detto che decide sull’appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di Napoli n. 8682 del 23 settembre 2011, mentre la vicenda processuale è stata regolata dalla sentenza del Giudice di Pace di Napoli n. 35137/11. Secondo il ricorrente, quest’ultima sentenza sarebbe passata in giudicato, mentre la sentenza impugnata andrebbe annullata perché riferita ad una sentenza del Giudice di Pace di Napoli pronunciata tra altre parti.

2.1.- Il motivo è infondato.

L’erronea indicazione nella sentenza di appello del numero cronologico della sentenza di primo grado oggetto di impugnazione non è altro che un errore materiale, del tutto irrilevante ai fini della decisione, laddove la sentenza impugnata risulti individuata senza alcuna possibilità di equivoci, quanto al giudice che l’ha emessa, alle parti del processo, alla vicenda processuale ed al contenuto della decisione.

Nel caso di specie, sebbene sia errata l’indicazione, nel corpo della sentenza del Tribunale (sia in motivazione che nel dispositivo), del numero della sentenza del Giudice di Pace appellata, nessun dubbio vi è stato, per il giudice del gravame e per le parti, in merito al provvedimento del Giudice di Pace fatto oggetto di impugnazione.

Né la sentenza del Tribunale sarebbe «inutilizzabile ed in definitiva priva di valore», come si sostiene nella memoria del ricorrente, in quanto inficiata dall’errore materiale di cui sopra.

Poiché la decisione sull’opposizione all’esecuzione è di accertamento della misura del credito per il quale la società S ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti di PM (quantificato chiaramente in sentenza nella somma indicata nel precetto intimato in data 8 ottobre 2010, ridotta dell’importo di € 195,85), l’errore materiale è del tutto irrilevante ai fini della comprensione, quindi dell’idoneità al giudicato, di questo accertamento.

Ma v’è di più. Si tratta di un errore materiale che non necessita nemmeno di correzione.

Ed invero, va emendato con il procedimento di correzione dell’errore materiale di cui agli artt. 287 e seg. cod. proc. civ. soltanto quell’errore che si sia estrinsecato nell’erronea manifestazione di volontà -di tipo ostativo, in quanto comportante la fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale- dell’organo giudicante. Quando, come nel caso di specie, l’errore materiale attenga ad una parte della sentenza che non sia espressione di tale manifestazione di volontà, esso è del tutto irrilevante, sia ai fini della validità della decisione, che ai fini della sua emendabilità con la procedura di correzione dell’errore materiale.

Il secondo motivo va perciò rigettato.

3. – Col terzo motivo si deduce nullità della sentenza e del procedimento ex artt. 281 sexies e 350 cod. proc. civ. , in relazione alla violazione del diritto alla difesa ex art. 24 Cost., ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., perché il giudice ha deciso la causa all’udienza del 23 gennaio 2013, fissata a seguito di rinvio. Il ricorrente lamenta che il rinvio non era stato disposto per la precisazione delle conclusioni, ma per acquisire atti del giudizio di primo grado; che, in questa situazione, l’art. 281 sexies cod. proc. civ. avrebbe imposto di fissare un’altra udienza per effettuare gli adempimenti previsti dalla norma; che, invece, la decisione assunta all’udienza che era stata fissata per gli adempimenti ex art. 350 cod. proc. civ., avendo impedito ad una delle parti l’esame del fascicolo ricostruito e non avendo differito, anche d’ufficio, la causa «come da autorevole dottrina sostenuto … omissis … e come dalla stessa normativa previsto quale misura di garanzia non valutabile discrezionalmente dal giudice», avrebbe costituito una violazione dei diritti di difesa dell’appellato.

3.1.- Il motivo è infondato.

La rimessione della causa in decisione non è condizionata dalla fissazione di un’apposita udienza destinata preventivamente alla precisazione delle conclusioni.

Sono chiare in tal senso le norme sia dell’art. 189 cod. proc. civ. (relativa alla rimessione della causa al collegio) sia dell’art. 281 quinquies cod. proc. civ. (relativa alla decisione a seguito di trattazione scritta o mista davanti al tribunale in composizione monocratica), come sostituiti dalla legge 26 novembre 1990 n. 353. Questa legge, d’altronde, ha abrogato l’art. 110 disp. att. cod. proc. civ. che imponeva al giudice istruttore di fissare un’apposita udienza di trattazione dopo la dichiarazione di chiusura dell’assunzione della prova per esaurimento di essa o per decadenza delle parti. Ha invece mantenuto l’art. 80 disp. att. cod. proc. civ., per il quale la rimessione al collegio, a norma dell’art. 187 del codice, può essere disposta dal giudice istruttore anche nell’udienza destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti.

Quindi, la regola posta dal codice di rito, con le norme su richiamate, è quella per la quale il giudice istruttore, esaurita l’attività di trattazione e di (eventuale) istruzione probatoria, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni, senza necessità di fissare, allo scopo, un’udienza «di precisazione delle conclusioni». Pertanto, considerati i poteri di direzione del procedimento attribuiti al giudice istruttore dall’art. 175 cod. proc. civ. e tenuto conto dei termini eventualmente fissati nel calendario del processo di cui all’art. 81 bis disp. att. cod. proc. civ., il giudice istruttore può disporre, sin dalla prima udienza, e comunque in ogni momento del processo, di rimettere la causa in decisione, invitando le parti a precisare le conclusioni dinanzi a lui alla stessa udienza.

Questa regola non è derogata nemmeno quando la decisione sia adottata dal giudice a seguito di trattazione orale ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ.

La norma consente al giudice istruttore, che non disponga la trattazione scritta o mista, di fare precisare le conclusione dinanzi a lui in qualunque momento del processo, senza necessità di fissare apposita udienza. Piuttosto, essa impone al giudice, quando una delle parti lo richieda, di fissare un’udienza successiva per la discussione orale e la pronuncia della sentenza al termine della discussione.

3.2.- Le regole di cui si è fin qui detto valgono anche per il procedimento d’appello.

Come nota la parte resistente, l’art. 352 cod. proc. civ. consente al giudice d’appello, esaurita l’attività prevista negli artt. 350 e 351, ove non provveda all’ammissione ed all’assunzione di prove, di invitare le parti a precisare le conclusioni, senza necessità di fissare allo scopo altra udienza.

Riconosciuta al giudice d’appello la possibilità di decidere la causa ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ. (per via giurisprudenziale anche prima dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 352 cod. proc. civ. con l’art. 27 della legge n. 183 del 2011, ed, a maggior ragione, dopo tale modifica), il rito è quello stesso previsto dall’art. 281 sexies cod. proc. civ., anche in forza del rinvio di cui all’art. 359 cod. proc. civ.

Vi è peraltro una deroga che questa Corte -prima della modifica normativa apportata dalla legge n. 183 del 2011 (modifica che è applicabile al caso di specie, trattandosi di sentenza pronunciata il 23 gennaio 2013)- ha ritenuto di desumere dal quinto comma dell’art. 352 cod. proc. civ., quando ha affermato che «nel procedimento d’appello davanti al tribunale, in composizione monocratica, non può procedersi alla discussione orale della causa cui segua la lettura del dispositivo ex art. 281 sexies cod. proc. civ., se una delle parti richieda, all’udienza di discussione, di disporre lo scambio delle conclusionali ai sensi dell’art. 190 cod. proc. civ, essendo tenuto il giudice, per espressa previsione dell’art. 352, ultimo comma, cod. proc. civ., a provvedere a tale adempimento e a fissare una nuova udienza di discussione nel termine previsto dalla norma, a pena di nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa» (così Cass. n. 6205/09 e n. 3980/12).

Si tratta di una deroga la cui permanente operatività, dopo la modifica dell’art. 352 cod. proc. civ. con l’inserimento dell’ultimo comma, sarebbe meritevole di ripensamento. Da questo tuttavia si può prescindere ai fini della decisione del presente ricorso, dal momento che detta deroga non ha alcuna incidenza sui tempi e sulle modalità di precisazione delle conclusioni.

Per di più, nella specie, risulta che il procuratore dell’appellato, pur essendo informato dell’udienza del 23 gennaio 2013 (cui il processo era stato rinviato per la ricostruzione del fascicolo ed alla quale vennero poi precisate le conclusioni), non vi prese parte, senza alcun giustificato motivo, né chiese che fosse fissata altra udienza per la discussione orale della causa (ovvero che la decisione fosse assunta a seguito di trattazione mista).

Va affermato che è corretto e non viola gli artt. 281 sexies e 350-352 cod. proc. civ., l’operato del giudice d’appello che, intendendo decidere la causa ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., in forza del disposto dell’ultimo comma dell’art. 352 cod. proc. civ. (aggiunto dall’art. 27, comma l, lett. d, della legge 12 novembre 2011 n. 183), esaurita l’attività prevista nell’art. 350, non dovendo provvedere a norma dell’articolo 356, all’udienza fissata per la trattazione dell’appello invita l’unica parte presente -essendo l’altra assente non giustificata- a precisare le conclusioni, senza fissare un’altra udienza allo scopo ed, in mancanza di istanza di parte di rinvio della . discussione orale ad un’udienza successiva, ordina la discussione orale nella stessa udienza e pronuncia sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Il terzo motivo va perciò rigettato.

4.- Col quarto motivo si deduce violazione dell’art. 342, comma primo, cod. proc. civ. perché l’appello sarebbe stato inammissibile in quanto mancante di motivi specifici, nonché omesso esame di questione controversa perché l’eccezione di inammissibilità dell’appello, formulata dall’appellato con riferimento a detta norma, non sarebbe stata esaminata dal giudice (che invece ha motivato in merito all’ammissibilità dell’appello con riferimento all’art. 113 cod. proc. civ.).

4.1.- Il motivo è inammissibile.

In proposito, è sufficiente ribadire che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (così Cass. n. 20405/06, nonché Cass. n. 86/12).

Analogamente, la parte ricorrente, già appellata, che lamenti che il giudice d’appello non abbia dichiarato l’inammissibilità del gravame per difetto di specificità dei motivi avanzati dalla controparte, già appellante, ha l’onere di specificare nel ricorso le ragioni per cui ritiene non sufficientemente specifici i motivi di gravame sottoposti a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa mancanza di specificità.

Nell’illustrare il quarto motivo di ricorso, il ricorrente PM si limita a rinviare ad alcune pagine dell’atto di appello della società S, così contravvenendo al principio appena enunciato e violando il disposto dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del motivo.

5.- Prima di trattare il quinto, sesto, settimo ed undicesimo motivo, attinenti tutti al regolamento delle spese, è opportuno dire dei motivi dall’ottavo al decimo.

Con l’ottavo motivo si deduce violazione dell’art. 345, comma secondo, cod. proc. civ. ed omesso esame della questione sull’inammissibilità di eccezioni nuove in appello, ai sensi dell’art. 360 n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.

Il ricorrente sostiene che il motivo d’appello concernente la non debenza dei diritti per la voce «esame testo integrale sentenza» sarebbe stato inammissibile perché l’appellante non avrebbe «mai proposto tale eccezione e argomentazione in I grado nelle proprie difese», come si desumerebbe dalla lettura della comparsa di risposta e della conclusionale della S in primo grado.

5.1. – Il motivo, oltre a presentare un evidente profilo di inammissibilità per la mancata riproposizione, anche in sintesi, del contenuto di tali atti processuali, su cui è basato (cfr. art. 366 n. 6 cod. proc. civ.), è anche manifestamente infondato.

Considerato che la voce per i diritti di procuratore di che trattasi è una di quelle auto-liquidate nel precetto rispetto a cui è stata proposta l’opposizione da parte del PM, la relativa contestazione è entrata nel thema decidendum del giudizio di opposizione già per il tramite dell’atto introduttivo di questo giudizio. Pertanto, non si vede come avrebbe potuto costituire oggetto di un’eccezione in senso proprio riservata alla parte opposta. Quest’ultima avrebbe potuto, tutt’al, più ribattere, sostenendo la debenza della somma indicata in precetto, con argomenti costituenti mere difese.

A queste non è applicabile il regime preclusivo dell’invocato art. 345 cod. proc. civ., riguardante le eccezioni c.d. in senso stretto (cfr., tra le altre, Cass. n. 18096/05, nonché, da ultimo, n. 350/13).

L’ottavo motivo va perciò rigettato.

6.- Col nono motivo si deduce violazione e falsa applicazione della normativa forense sui punti 74, 46 tabella B parte II e 16 parte I del tariffario, perché il Tribunale ha ritenuto che la voce indicata in precetto come «esame testo integrale sentenza» facesse riferimento alla voce n. 46 della tariffa forense («disamina titolo esecutivo») e fosse perciò dovuta. Secondo il ricorrente, invece, la società creditrice, nell’intimare il precetto, avrebbe preteso i diritti del procuratore per la voce di cui al n. 16 tabella B parte I del tariffario relativa al processo di cognizione, per come sarebbe dimostrato dal differente importo previsto per le due voci e dal fatto che nel precetto sarebbe stato indicato proprio l’importo stabilito per la voce «esame testo integrale sentenza» (€ 19) e non quello previsto per la «disamina titolo esecutivo» (€ 10).

6.1.- Il motivo è inammissibile.

Esso involge l’apprezzamento di fatto del giudice di merito nell’attività di interpretazione degli atti processuali allo stesso riservata. Nel caso di specie, si è trattato di interpretare una delle voci dei diritti richiesti dal procuratore legale con l’atto di precetto.

Il Tribunale non ha affermato che col precetto possano essere pretesi i diritti per «esame testo integrale della sentenza» – affermazione, che sarebbe stata in contrasto con le norme delle quali è denunciata la violazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ.

Piuttosto, ha affermato che, pur avendo usato detta espressione, la società creditrice ebbe, di fatto («indipendentemente dalla sua formulazione letterale»), a pretendere i diritti per la «disamina titolo esecutivo», dal momento che, nel caso di specie, il titolo esecutivo era costituito da una sentenza.

Dato questo accertamento in fatto, è corretta, in diritto, la conclusione, tratta dal Tribunale, circa la debenza dei diritti per disamina titolo esecutivo (non contestati nel loro ammontare, che differisce soltanto per 9 -nove- euro), poiché essi sono dovuti in caso di intimazione di atto di precetto.

Il ricorrente avrebbe dovuto censurare la decisione, tutt’al più, facendo ricorso al disposto del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. In mancanza, il motivo -col quale con la denuncia della violazione di legge si finisce per censurare l’attività interpretativa riservata al giudice del merito- è, come detto, inammissibile.

7.- Col decimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della normativa forense sui punti 74, 21 e 22 tabella B parte I tariffario, perché, secondo il ricorrente, il giudice di merito avrebbe errato nel riconoscere come dovute le voci «consultazione cliente» e «corrispondenza informativa», che riguardano il processo di cognizione, ma non riguarderebbero il processo esecutivo.

7.1.- Il motivo è infondato.

Va integralmente richiamata la motivazione della sentenza di questa Corte -della quale peraltro è detto anche nella sentenza impugnata- pronunciata il 20 giugno 2011 n. 13482, con cui si è definitivamente superato l’orientamento espresso dalla sentenza di questa Corte -richiamata invece in ricorso- pronunciata il 20 agosto 2002 n. 12270.

Va quindi ribadito che, in tema di liquidazione delle spese per l’atto di precetto, gli onorari e i diritti di procuratore per le voci tariffarie «consultazioni con il cliente» e «corrispondenza informativa con il cliente» sono ripetibili nei confronti della parte soccombente in sede di precetto intimato dalla parte vittoriosa anche successivamente ed in riferimento alla sentenza definitiva, ai sensi dell’art. 74, in relazione alla tabella B, parte II, della tariffa forense recata dal D.M. 8 aprile 2004 n. 127.

Si tratta di attività difensive che, di norma, si presumono, fatta salva la contestazione specifica del loro effettivo espletamento in concreto.

Il Tribunale di Napoli, in mancanza di tale specifica contestazione, ha applicato il principio sopra richiamato.

Il decimo motivo di ricorso va perciò rigettato.

8.- Col quinto motivo si deduce nullità della sentenza e del procedimento in riferimento all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. ed omesso esame di questione controversa (ai sensi dell’art. 360 n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.) perché il giudice d’appello avrebbe compensato le spese del primo grado di giudizio (che invece il Giudice di pace aveva posto a carico della società opposta) per « giusti motivi», mentre il testo della norma applicabile è quello riformato con la legge n. 69 del 2009, che consente la compensazione soltanto per « gravi ed eccezionali ragioni».

Pertanto, il primo motivo di appello, col quale era criticata la condanna della società appellante al pagamento delle spese, sarebbe stato da rigettare e non da accogliere, con la conseguenza che vi sarebbe stata una soccombenza reciproca nel secondo grado di giudizio e quindi un possibile diverso regime delle spese di tale secondo grado.

8.1.- Col sesto motivo si deduce nullità della sentenza e del procedimento ai sensi degli artt. 346 e 329, secondo comma, cod. proc. civ. per violazione del giudicato interno e del principio dell’acquiescenza, perché il giudice d’appello avrebbe ritenuto erroneamente la soccombenza parziale del PM, mentre vi sarebbe stata la soccombenza integrale della S, già in primo grado. Su questa soccombenza integrale si sarebbe formato il giudicato perché l’appellante non avrebbe impugnato la sentenza di primo grado laddove, a seguito dell’accoglimento della domanda, proposta in via “gradata”, di inefficacia parziale del precetto, avrebbe statuito sulla soccombenza integrale della società. Vi sarebbe stato un comportamento dell’appellante di acquiescenza alla sentenza di primo grado.

8.2.- Col settimo motivo si deduce violazione dell’art. 91, primo comma, cod. proc. civ., quanto al principio di soccombenza, e dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. quanto al principio di soccombenza reciproca, perché il PM è stato condannato al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio, con compensazione di quelle del primo grado, malgrado sia stata accolta la sua domanda subordinata di dichiarazione di inefficacia parziale del precetto, a nulla rilevando che la domanda principale non sia stata accolta.

8.3.- Con l’undicesimo motivo si deduce violazione del principio di diritto della liquidazione delle spese di giudizio secondo il decisum, perché la materia del contendere in grado di appello era di € 97,00, mentre l’ammontare delle spese liquidate è stato di € 1.050,00: secondo il ricorrente, si tratterebbe di un importo sproporzionato e non conforme a diritto, oltre che iniquo rispetto all’esito finale della lite.

9.- I motivi appena riassunti vanno esaminati congiuntamente perché attengono tutti al regolamento delle spese dei due gradi di giudizio.

Logicamente preliminare appare il settimo. Esso è fondato ed il suo accoglimento comporta l’assorbimento degli altri.

La sentenza non è conforme a diritto perché ha regolato le spese disattendo il principio, più volte ribadito da questa Corte in tema di liquidazione delle spese nella fase di gravame, del c.d. “esito complessivo della lite”, in base al quale “Il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, al fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicché viola il principio di cui all’art. 91 cod. proc. civ., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado” (Cass. n. 6259/2014; in senso conforme: Cass. n.23226/2013, n.18837/2010, n. 15483/2008).

Il PM va considerato come parte vincitrice, sia pure parzialmente, all’esito complessivo della lite.

Egli contestò alcune delle voci dei diritti auto-liquidati col precetto opposto e chiese, in via principale, la dichiarazione di inefficacia di questo per l’intero suo ammontare; in subordine, la dichiarazione di inefficacia parziale, con riduzione dell’ammontare della somma precettata, in relazione alle voci oggetto di specifica contestazione. Questa domanda subordinata, alla fine dei due gradi di giudizio, risulta accolta parzialmente (vale a dire, soltanto per alcune delle voci contestate, e non per altre).

L’opponente, essendo stata accolta l’opposizione, anche se soltanto in parte, non avrebbe potuto essere condannato a rimborsare le spese di lite, nemmeno per la parte relativa al solo grado di appello, in favore della parte opposta (che a quella opposizione ha resistito in toto in primo grado), poi appellante. Ed invero corollario del principio di diritto di cui sopra è quello per il quale in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che la parte interamente vittoriosa (ancorché sia stata accolta la domanda formulata solo in via subordinata) non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse; e il suddetto criterio della soccombenza non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole (Cass. n. 4201/02, n. 406/08, n. 13229/11; che anche Cass. ord. n. 20894/14).

Ne consegue che la parte che abbia proposto un’opposizione all’esecuzione, contestando, in via subordinata, alcune delle voci dei diritti di procuratore auto-liquidati nell’atto di precetto, e che, all’esito dei due gradi di giudizio, abbia conseguito un accoglimento soltanto parziale della propria domanda subordinata non può essere condannata a rimborsare le spese, nemmeno pro-quota o relativamente ad uno soltanto dei gradi del giudizio, in favore della parte opposta che vi abbia infondatamente resistito e che, alla fine, sia risultata, pur se parzialmente, soccombente.

Quindi, il settimo motivo di ricorso va accolto.

Va cassato il capo della sentenza d’appello col quale sono state liquidate separatamente le spese del primo e del secondo grado di giudizio.

9.1.- Questa cassazione comporta l’assorbimento dei motivi quinto e sesto, in quanto volti a censurare la decisione di compensazione delle spese del primo grado, ed undicesimo, in quanto volto a censurare la liquidazione delle spese del secondo grado.

Giova precisare che, contrariamente a quanto si assume col sesto motivo, la decisione di cui sopra non comporta la formazione di alcun giudicato sulla statuizione del primo giudice di condanna e della parte opposta al pagamento delle spese di lite del primo grado di giudizio in favore della parte opponente.

Infatti, il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito, come già detto, tenendo presente l’esito complessivo della lite (così, da ultimo, Cass. ord. n. 6259/14).

Quindi, in caso di riforma della sentenza di primo grado, non è configurabile alcun giudicato interno sulla regolamentazione delle spese disposta dal primo giudice, a differenza di quanto accade invece quando la sentenza di primo grado sia confermata (cfr. Cass. n. 18837/10).

9.2. – Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, il Collegio ritiene di poter procedere alla ridefinizione complessiva delle spese dei due gradi di merito, ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ..

Il relativo regolamento va adottato tenendo presente il principio di diritto per il quale la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.), sottende anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (così Cass. ord. n. 22381/09 e n. 21684/13).

Poiché la domanda subordinata dell’opponente PM è stata accolta soltanto in parte, nella specie per l’importo di e 192,85, in luogo della maggiore misura richiesta con l’atto introduttivo della lite, va disposta la compensazione totale delle spese dei due gradi di merito.

La novità della questione posta col primo motivo di ricorso, per un verso, e l’accoglimento del settimo motivo di ricorso (con assorbimento del quinto, sesto ed undicesimo), per altro verso, consentono di compensare anche le spese del giudizio di cassazione.

Per questi motivi

La Corte accoglie il settimo motivo di ricorso (sub g), assorbiti il quinto, il sesto e l’undicesimo e rigettati i restanti. Cassa la sentenza impugnata nei limiti specificati in motivazione e, decidendo nel merito, compensa le spese del primo e del secondo grado.

Compensa tra le parti anche le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2015.