La giurisprudenza di legittimità alle prese con il Processo Civile Telematico: le pronunce più significative del 2017

Dottoranda di ricerca in Diritto Processuale Civile (Università degli Studi di Milano-Bicocca) e Formatore PCT

 

Ad oltre tre anni dall’entrata in vigore dell’obbligatorietà, cresce l’attenzione della giurisprudenza di legittimità e di merito nei confronti delle tematiche connesse alla nascita e allo sviluppo del Processo Civile Telematico.

Ed è proprio il binomio – costituito, da una parte, dal crescente rilievo di depositi e notifiche con modalità telematiche e, dall’altra, dalle esigenze di innovazione interpretativa poste da un dettato normativo troppo spesso oscuro o comunque non aggiornato – a destare le maggiori preoccupazioni.

Questa duplicità di aspetti traspare in tutta la sua evidenza nelle pronunce giurisprudenziali che hanno caratterizzato, non sempre positivamente, l’anno appena concluso.

Ha innanzitutto destato scalpore la sentenza 14 luglio 2017 n. 17450 con la quale la Corte di Cassazione si è pronunciata su come il ricorrente, destinatario della notifica a mezzo PEC della sentenza impugnata, debba assolvere l’onere ex art. 369, 2° comma, n. 2 c.p.c., ai sensi del quale col ricorso devono essere depositate, a pena di improcedibilità, la copia autentica della sentenza impugnata e la relazione di notificazione, qualora questa abbia avuto luogo.

Secondo quanto sancito dalla Suprema Corte, “il difensore del ricorrente, destinatario della notificazione, deve estrarre copie cartacee del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e della relazione di notificazione redatta dal mittente L. n. 53 del 1994, ex art. 3-bis, comma 5 e attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali delle copie analogiche [del messaggio PEC e della relata di notifica] depositate queste ultime presso la cancelleria della Corte”.

Con un’interpretazione senz’altro discutibile e discussa, la Corte applica estensivamente l’art. 9, comma 1-ter, della L. 53 del 1994 fino a sanzionare con l’improcedibilità il ricorrente che abbia depositato il messaggio di posta elettronica certificata inviatogli dalla controparte in copia cartacea senza attestarne la conformità all’originale e senza produrre la necessaria copia conforme della relazione di notificazione pervenutagli dal mittente.

Il principio è stato ulteriormente ribadito con la sentenza 9 novembre 2017 n. 26520, con cui la Cassazione parla di un duplice onere di certificazione in capo al ricorrente: da un lato, deve asseverare, come conforme all’originale ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis del d.l. 179/2012 la copia del provvedimento impugnato estratta dal fascicolo informatico e non dalla copia notificata (fatta comunque salva la possibilità di produrre la copia autentica rilasciata dalla Cancelleria, non essendo necessario in tal caso alcuna attestazione) e, dall’altro lato, deve parimenti certificare le copie cartacee della notificazione telematica ricevuta ai sensi della L. 53/1994, come interpretata dalla sopracitata sentenza n. 17450 del 14/07/2017.

Da ultimo, con ordinanza n. 30622 del 20 dicembre 2017, la questione di improcedibilità del ricorso per cassazione per mancata attestazione di conformità del provvedimento notificato a mezzo PEC è stata rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, trattandosi di questione di particolare importanza, anche “in ragione degli assai incidenti (ed immediatamente percepibili) riverberi di natura pratico-applicativa che da essa scaturiscono”.

Altra questione rimessa alle Sezioni Unite è quella relativa alla struttura dell’atto nativo digitale, con particolare riferimento all’apposizione della firma digitale in formato Cades (p7m) sulla procura speciale per Cassazione.

Con la discutibile ordinanza n. 20672 del 31 agosto 2017, la Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla sottoscrizione digitale del documento informatico originale analogico, quale ad esempio la procura speciale che, a detta della sezione rimettente, dovrebbe recare necessariamente l’estensione «p7m», a garanzia dell’autenticità del file.

La Corte muove dalla premessa – corretta e di per sé assorbente di ogni ulteriore rilievo – che ai sensi della normativa regolamentare che governa il Processo Civile Telematico la struttura del documento firmato è PAdES-BES (che mantiene inalterata l’estensione del file .pdf) o CAdES-BES (caratterizzata dall’estensione .p7m), essendo pertanto consentiti entrambi i formati.

E tuttavia, giunge alla conclusione, per certi versi paradossale, di considerare che, in caso di procura speciale per Cassazione (o comunque di documento informatico non nativo digitale), solo il formato CADES-BES (p7m) garantirebbe l’autenticità del file, chiedendo così alle Sezioni Unite di esprimersi sulla possibilità di “una prescrizione sulla forma dell’atto indispensabile al raggiungimento dello scopo (art.156, comma secondo, cod. proc. civ.) e posta pertanto a pena di nullità, nonché, in caso di risposta affermativa, sull’applicabilità – e relativi presupposti ed eventuali limiti – del principio di sanatoria dell’atto nullo in caso di raggiungimento dello scopo”.

Anche in questo caso, la parola passa pertanto alle Sezioni Unite che, si auspica, riescano a trovare un punto di equilibrio, il più possibile ragionevole, tra il rigore formalistico e le insopprimibili garanzie costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo.

Altra questione rimessa al vaglio della Suprema Corte, nel caso di specie costituzionale, è quella relativa all’orario delle notifiche in proprio a mezzo PEC.

Con ordinanza del 16 ottobre 2017 la Corte di Appello di Milano ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies del D.L. 179/2012, conv. in L. 221/2012, nella parte in cui prevede che “la disposizione dell’art. 147 c.p.c. si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”.

Secondo i giudici milanesi tale norma, introdotta dall’art. 45 bis della L. 114/2014,  contrasta:
– sia con l’art. 3 cost. trattando in modo eguale situazioni differenti: diverse sono infatti, secondo la Corte, le esigenze di tutela del domicilio sottese alla notifica tradizionale rispetto alla notifica a mezzo PEC;
– sia con gli artt. 24 e 111 cost., violando il diritto del notificante di difendersi sfruttando per intero il limite giornaliero che gli viene riconosciuto dalla legge.

Un’interpretazione costituzionalmente orientata  – continua la Corte d’Appello – nascerebbe dal coordinamento della norma in esame con il principio di scissione soggettiva. In tal modo gli effetti della notifica effettuata dopo le ore 21.00 (ma prima delle ore 24.00) si produrrebbero nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna in capo al notificante (che potrebbe notificare fino alla mezzanotte del giorno della scadenza) e alle ore 7.00 del giorno successivo in capo al notificato (che non avrebbe l’onere di controllare la propria pec nelle ore notturne).

La Corte d’Appello esclude però la possibilità di procedere autonomamente a tale interpretazione – in quanto comporterebbe di fatto l’abrogazione della norma – e rimette gli atti alla Corte Costituzionale.

In questo quadro incerto, in cui si moltiplicano gli oneri formali e formalistici a carico del difensore, spicca una decisione del Tribunale di Milano (ord. 2 giugno 2017 – Pres. rel. Riva Crugnola) che si è espressa sulla questione, anch’essa oggetto di accesi contrasti giurisprudenziali, della rimessione in termini per “errori” nel deposito telematico da parte del difensore.

Nel caso di specie, il reclamante aveva depositato il proprio reclamo ex art. 669 terdecies come atto introduttivo, mentre le prassi in uso presso il Tribunale di Milano prevedono che il deposito vada effettuato come atto endoprocessuale (utilizzando l’atto “reclamo al collegio”) nel fascicolo del primo grado cautelare.

La Cancelleria, in osservanza di tale prassi, rifiutava il deposito con la dicitura “reclamo da inviare alla sezione competente indicando n. rg” ed il reclamante – essendo nel contempo scaduto il termine ex art. 669 terdecies – depositava istanza di rimessione in termini, allegando le ricevute del primo deposito tempestivo, pur rifiutato dalla Cancelleria.

Il Collegio, presieduto dalla d.ssa Riva Crugnola, in luogo di prestare il fianco ad interpretazione formalistiche in auge anche in materia di rimessione in termini, si è così espresso: “il rifiuto del primo invio telematico va riferito a prassi organizzativa del Tribunale quanto alla iscrizione a ruolo degli atti di reclamo (iscrizione da eseguirsi presso la Cancelleria della sezione ove è stata definita la prima fase del procedimento cautelare e non presso la Cancelleria centrale) e non a negligenza della parte reclamante, che ha comunque indirizzato tempestivamente al Tribunale competente il deposito telematico dell’atto di reclamo, con la conseguenza che il secondo deposito telematico dell’atto di reclamo, eseguito dopo il rifiuto, va considerato mera regolarizzazione del primo deposito, da considerare di per sé tempestivo e non richiedente riammissione in termini”.

Un’altra via è pertanto possibile. Se il cambiamento sotteso al Processo Civile Telematico non può prescindere dall’intervento uniformatore e nomofilattico cui è chiamata la Suprema Corte di Cassazione, l’auspicio è nel senso di un’interpretazione ragionevole che, dinnanzi ai problemi interpretativi posti di volta in volta da tale cambiamento, ponga un argine al dilagare del formalismo, inquadrandolo entro le garanzie costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo.