30 GIUGNO 2014 – 30 GIUGNO 2019: UN LUSTRO DI PROCESSO CIVILE TELEMATICO OBBLIGATORIO

LA TECNOLOGIA È LO STUDIO TEORICO DEI PROBLEMI GENERALI DELLA TECNICA

INTERVISTA ALL’AVV. ANDREA STANCHI

Il 30 giugno 2014 è entrato in vigore il processo civile telematico obbligatorio nei procedimenti avanti il Tribunale. L’obbligatorietà dell’utilizzo dello strumento tecnologico nel processo – dal giugno del 2015, in vigore anche nei procedimenti di secondo grado avanti la Corte di Appello – è stata, in questi anni, fonte di elaborazioni giurisprudenziali a tratti controverse, di ampie disquisizioni, di approfondimenti, di evoluzioni tecnologiche di sistema, e, certamente per gli avvocati, di frequenti ansie notturne.

Abbiamo quindi deciso di cercare di fare il punto della situazione, dopo i primi cinque anni di processo telematico civile “obbligatorio”, traendo spunto da quanto è accaduto nelle aule di giustizia, nelle sessioni di studio, nei convegni e nei vari percorsi dialettici di evoluzione della disciplina. Disciplina che, ancora oggi, è considerata troppo spesso quale mero strumento tecnologico del processo, avulso e scollegato da quest’ultimo, mentre, da più autori ed esperti, deve essere considerato quale mezzo di evoluzione del processo, che non può rispondere a regole create per essere applicate solo sulla “carta”.

Abbiamo quindi ipotizzato cinque domande, elencate di seguito, da porre a soggetti che in questi anni hanno fatto e realizzato processo civile telematico: applicandolo, studiandolo e dando, comunque, un contributo alla sua formazione ed evoluzione. Le domande attengono allo stato dell’arte del PCT ed alla sua possibile evoluzione.

Gli argomenti proposti partono dall’analisi della giurisprudenza che negli ultimi anni è stata elaborata in materia di processo civile telematico e di notificazioni eseguite dagli avvocati a mezzo posta elettronica certificata.

Dopo circa due anni di intenso dibattito dottrinale, nella recente sentenza n. 8312/2019, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno finalmente risolto la questione relativa all’applicabilità del secondo comma dell’art. 23 del Codice dell’Amministrazione Digitale a tutti i documenti informatici depositati nel giudizio di legittimità (ivi compreso il provvedimento impugnato) con salvaguardia dalla dichiarazione di improcedibilità del ricorso quando, pur mancando una dichiarazione di conformità sul ricorso, sulla relata ovvero sul provvedimento notificato a mezzo Posta Elettronica Certificata, non vi sia contestazione.

L’eccessivo formalismo che ha caratterizzato le decisioni della Corte di Cassazione nel giudicare le fattispecie relative al deposito telematico e alla notificazione a mezzo Pec ha destato preoccupazione e una forte critica, in larga parte proveniente dal mondo dell’avvocatura.

Non può non ripensarsi, ad esempio, alla decisione sull’invalidità della firma Pades (ordinanza di rimessione n. 20672/2017), risolta dalle Sezioni Unite, o alla necessità dell’intervento della Corte Costituzionale sul tema “tempo” delle notificazioni: con la sentenza n. 75/2019 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 septies del DL n. 179/2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 221/2012, come inserito  dall’art. 45 bis comma 2, lett. B, del DL n. 90/2014, convertito con modificazioni nella L. n. 114/2014, nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta.

La Corte di Cassazione, sul tema, con una giurisprudenza granitica aveva infatti ritenuto di escludere l’applicazione del principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione a quelle effettuate a mezzo Posta Elettronica Certificata, in ragione delle caratteristiche dello strumento tecnologico utilizzato.

Di qui la necessità di condividere valutazioni sul tema.

Abbiamo anche chiesto di valutare la natura del processo civile telematico e i cambiamenti che quest’ultimo può apportare in tema di redazione di atti difensivi e provvedimenti giurisprudenziali, nonché in materia di indicizzazione e raccolta dei provvedimenti redatti con lo strumento tecnologico.

Quale ultimo, ma non meno importante argomento, abbiamo deciso di porre una domanda sul rapporto tra il processo civile telematico e l’Intelligenza Artificiale. Chi conosce il sistema del PCT sa che il rapporto è inevitabile. La vera domanda è: siamo pronti a governare il processo?

Ecco le domande proposte ai nostri intervistati che con molto entusiasmo, hanno deciso di condividere le loro valutazioni.

INTERVISTA ALL’ AVV. ANDREA STANCHI

1. IL PCT come paradosso: lo strumento tecnologico introdotto per il processo ha recentemente prodotto interpretazioni giurisprudenziali connotate da estremo rigore formalistico. Come si è giunti a questo risultato?
La tecnica digitale, per sua natura (Foucault 1975-1999/Handy 1996-2009), sovrappone la regola tecnica alla regola processuale. Questo comporta che la tecnica sopravanza la regola legale procedurale, la ingloba e la modifica, perché è funzionale e costrittiva. Ciò determina che la forma è sostanza nei sistemi tecnologici digitali.

Quindi: una regola non legale (ma tecnica) diviene condizione di quella legale (in ragione della tecnica scelta) e modifica la procedura (di fatto divenendo condizione abilitante per l’accesso alla giustizia).

Questo è il più grande errore di chi ha pensato di telematizzare un sistema processuale concepito analogicamente. Il passaggio al media digitale per sua natura comporta il cambiamento di paradigma della normazione (sia essa procedurale o sostanziale) e quindi va ripensato l’intero sistema. Perchè il media digitale è diverso dal media carta (Mc Luhan 1968/Finn 2018/Harvey 2018/Eisenstein 1979).

A ciò si aggiunga il naturale principio di esponenzialità della evoluzione tecnologica (la legge di Moore applicata dai transistor al digitale: Finn). Quindi l’evoluzione tecnologica cambia il paradigma, che cambia le modalità di organizzazione, che a loro volta ri-cambiano l’evoluzione tecnologica in un loop sempre più veloce (Kurzweil 2013/Brynjolfsson-McAfee 2014). E la filosofia del ‘900 ci ha insegnato che i mutamenti tecnologici determinano un necessario mutare dell’interpretazione delle regole che a tale tecnologia si riferiscono (Wittgenstein/Peirce).

2. Il PCT e la sua dualistica natura: lo strumento tecnologico realizza un flusso di dati e documenti o pone in essere il dialogo processuale?
In realtà può fare entrambe le cose. Il dibattito internazionale su AI e giustizia predittiva ne è l’esempio (R.Smith 2019). Il tema vero è se sia – a questo stadio dell’evoluzione- ragionevole fargli fare entrambe le cose, vista l’esperienza del PCT.

Le riflessioni più avanzate (di chi ha pensato ad un uso massiccio: cfr. The Legal Education Foundation sulla riforma UK) sono nel senso che il tema non è quello della giustizia predittiva mediante AI, ma di modificare le possibilità di accessibilità alla giustizia tramite l’AI (o meglio tramite la tecnologia digitale).

A questo punto della mia personale riflessione, io credo che occorra freddamente analizzare il “processo” da un lato nella sua natura, potremmo dire logistica, di sequenza di stadi diretti a produrre un risultato, la decisione (chiamiamolo convenzionalmente “processo come flusso”). Dall’altro nella sua natura intima e costituzionalmente protetta di “luogo di confronto sui diritti e risoluzione del conflitto con l’attribuzione di un bene della vita ad una parte anzichè ad un’altra” (ovviamente parliamo, in prospettiva classica, del civile).

Per quanto possa sembrare sacrilego, nella prima prospettiva siamo di fronte ad un processo simile ad una supply chain (presa in carico dal tribunale, formazione del fascicolo, assegnazione ad un giudice, fissazione di una udienza, costruzione del contraddittorio, udienze di delimitazione dell’oggetto della decisione, verifica degli elementi di prova, conclusioni, formazione della decisione, argomentazione della stessa, trasmissione alle parti; e poi tutto re-inizia per la verifica con l’impugnazione nei suoi successivi gradi), che va analizzata come tale ed è profondamente diversa e non necessariamente coincidente con la sua altra e preminente funzione di esercizio del diritto di difesa.

Il flusso oggi, nel contesto della pressione numerica statistica, va studiato di per sè e può essere tecnologicizzato come tale.

Pensare oggi, nel 2019 in pieno sviluppo dell’età dell’informazione, di riformare il codice di procedura civile per sveltire le decisioni (magari come da notizie di stampa degli ultimi giorni, pensando anche di applicare delle sanzioni a giudici o parti lente) è segno di una assoluta incomprensione del problema che si vuole affrontare.

E’ come se (con i dovuti distinguo, assenti iniuria verbis, e recuperando il parallelo di Tegmark), nel 1930, si fosse pensato di risolvere il problema della velocità del trasporto punendo il proprio cavallo perchè non andava veloce come una autovettura e non aveva le stesse caratteristiche di confort.

Un rovesciamento dell’analisi da fare. Potremmo dire una dissociazione tra volontà (Nietzschiana) e consapevolezza (Cartesiana).

3. Atti e provvedimenti nel PCT: l’utilizzo dello strumento tecnologico può cambiare la strategia difensiva relativamente alla tecnica redazionale degli atti e dei provvedimenti?
Ovviamente si.

Qui Mc Luhan (pur inconsapevolmente rispetto alla tecnologia digitale: cfr. Harvey) illumina. Il mutamento delle caratteristiche del media muta anche le possibilità di comunicazione. Di conseguenza muta la funzione informazionale dello strumento che può quindi usare più e diversi livelli di informazione e formazione della informazione (si pensi alla natura non “uniforme” ma multilivello del digitale, alla sua unicità linguistica nel tradurre tutto in bit, e per tutto intendo diversi livelli di informazioni e materiali: lingua scritta, video, audio, materia stessa e pure materia vivente: il tutto oggi può essere racchiuso in un’unica matrice informazionale, che fornisce a sua volta ulteriori informazioni su di se (metadati a loro volta assemblabili e correlabili).

Sotto questo profilo i giuristi (tutte le categorie di) sono particolarmente indietro. Del resto non si studia ormai da nessuna parte la funzione argomentativa del diritto e quindi si è completamente persa di vista la necessità di comprendere lo strumento della legge, il suo media.

La legge “diventa grande”, per così dire, sulla carta (Eisenstein). Quando passa al digitale diventa un’altra cosa ancora (Harvey). Dobbiamo stabilire noi cosa.

Ma occorre studiare sapendo che il cambio di paradigma cambia oggetto, soggetto, modalità e funzione stessa della legge. Quindi seppur tutto ci sembra uguale in realtà è tutto diverso.

4. I provvedimenti redatti con lo strumento tecnologico sono differentemente indicizzabili: è possibile ripensare alle raccolte di giurisprudenza ai fini della realizzazione del giusto processo?
La digitalizzazione (anche la telematizzazione avvenuta col PCT) produce il nutrimento dell’evoluzione informazionale: cioè dati digitalmente commestibili, che quando sono tanti, prodotti da tante fonti diverse, ma tutte unitariamente masticabili dalla matrice, diventano big data. La natura unitaria della lingua della matrice, come detto, cambia completamente le possibilità (la funzione stessa della letteratura giuridica cambia e ne cambia l’accessibilità: Francesconi 2018).

Proviamo a riflettere su una giurisprudenza che, indicizzata e algoritmicamente commestibile, produce non solo orientamenti giurisprudenziali correlabili, confrontabili (nei c.d. Pattern decisori), e immediatamente conoscibili a tutti (se in questo paese si arrivasse ad adempiere al primo dovere fondamentale di uno stato civile e cioè si divulgasse ai cittadini, che la pagano in tasse e quindi ne sono i proprietari – del resto le sentenze sono di quel “Popolo Italiano” nel cui nome sono pronunciate dai suoi dipendenti giudici-, la giurisprudenza invece di venderla ai soli editori…..), ma opera sulla stessa fonte della litigiosità (perchè anche la legge è digitalizzabile e quindi commestibile. Ad esempio: se il contenzioso deriva da una difficoltà interpretativa dei testi meravigliosamente scritti dai nostri legislatori, oggi sarebbe astrattamente possibile che l’esito giurisprudenziale retroagisca sulla norma correggendola, secondo le regole che stabilissimo e riducendo per tale via quel tipo di contenzioso).

5. Giustizia e Intelligenza Artificiale: rapporto realizzabile?
In realtà l’attività cognitiva (Harari 2017) è in sé un algoritmo.

Se così è, e rifacendoci al principio di esponenzialità della evoluzione della tecnologia digitale (Kurzweil, letto alla luce di Liebniz e Spengler), il tema non è se, ma quando. Ciò in termini tecnici.

A noi giuristi resta la scelta del ruolo da assegnarci e quindi come e quanto condizionare questo processo.

In termini di ragionamento puramente economico, andiamo verso una realtà che (coi tempi che ci vorranno) sostituirà sempre più attività umane con attività digitali (il cd. Great decoupling). Senza allarmismi, ma i ragionamenti di coloro che ci dicono, in sostanza, “pensa per il meglio ma preparati al peggio” (come Kaplan, Gates, Hawking, ecc.) vanno riflettuti seriamente.

Nella giurisdizione, riflessioni come quelle della Legal Education Foundation, sono moniti di riflessione analitica sui diversi stadi della funzione giurisdizionale.

Viviamo in un contesto in cui, per fare il giurista seriamente, non si può pensare di limitarsi a leggere le norme ed interpretarle. Occorre conoscere il contesto, capire l’evoluzione, capire gli effetti di ciò che si fa e di ciò che verrà, per potere non essere troppo in ritardo nel regolarla (e non prendere decisioni devastanti e scollegate: il principio di esponenzialità della evoluzione tecnologica è associato ad un principio invertito nella comprensione umana della tecnologia: più invecchiamo meno siamo idonei a mutare e più tempo ci mettiamo a capire i mutamenti di infrastruttura, il che si somma al tradizionale conservatorismo della legge, per sua natura).

Oggi parlare di AI è moda. Raramente si incontra qualche giurista/accademico dichiaratamente “esperto” che alla domanda “ma hai visto funzionare un algoritmo ‘semantico’ (pur con tutti i limiti di tale definizione)” sa dare una risposta diversa da “no”. Quindi il dibattito deve ancora progredire e scendere di più nel concreto.

Viviamo in un’epoca in cui la teoria, specie giuridica, non basta (il giudizio sull’accademia, ad esempio, di Taleb è severissimo: Taleb 2017).

Certamente si può parlare di diverse tipologie di algoritmi e di diverse capacità potenziali.

A mio giudizio la cosa essenziale è sapere analizzare i contesti e tenere fede alla necessaria prudenza. Parlare di giustizia predittiva è, normativamente, in contrasto coi principi fondamentali (anche il GDPR non consentirebbe processi decisori automatizzati, e la cultura giuridica, anche d’oltreoceano, si era espressa già in tempi lontani autorevolmente in tale senso, enunciando un principio di fondo della giustizia).

Anche una giustizia ridotta a un decisionificio –in cui il confronto, la riflesssione e l’argomentazione della scelta sono solo enunciati e non concretamente rispettati- in ossequio a principi di servizio per il rating economico del paese, peraltro, non risponde al diritto di difesa costituzionalmente protetto.

Quindi occorre incamminarsi su una strada in cui la tecnologia è di supporto alla supply chain della giustizia, ma in cui la celerità ottenibile nel flusso (non lasciato all’auto organizzazione di un corpo giudicante che non riceve nessun addestramento mangeriale basato su specializzazione organizzativa, ma è addestrato -come deve essere- a fare un lavoro intellettualmente diverso) diviene la condizione per dare al confronto, alla riflessione e quindi al definitivo all’autorevolezza della decisione, lo spazio proprio che merita.

Occorre liberare lo Jus dicere dall’urgenza del tempo per ridargli la dignità che deriva dal “pensiero”.

In questo senso una augmented intelligence tecnologica è certamente di aiuto.

Nessuna esplorazione è poi neppure avanzata in ipotesi sulla natura del “processo” come esplicazione della teoria dei giochi e quindi analizzabile sotto il profilo del gaming digitale (cfr.es. Mc Gonical 2013).

Non sarebbe meglio, invece che imporre al Paese i costi di una velleitaria ennesima riforma (in realtà più come affermazione Nietzschiana di contingenti assetti politici di propaganda che come reale preoccupazione socioeconomia) simularne l’ideazione e l’applicazione con le tecniche del gaming (ed i suoi profili da azioni positive tramite il rewarding)?

Ciò che funziona si fa; ciò che da problemi si corregge nel virtuale, senza avere devastato l’amministrazione della giustizia (il Rito Fornero, docet).

La digitalizzazione (il legal design thinking) è anche questo.

Think!

Andrea Stanchi (*)

(*) Avvocato in milano, componente OCF, Gruppo Procedure e Tecnologie.