Ottobre 2016

T.A.R. Lombardia, sez. IV, sent. 24 ottobre 2016, n. 1950

 

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L’attività redazionale di anonimizzazione e di pubblicazione in un formato accessibile dei testi dei provvedimenti richiede un impegno notevole. I provvedimenti sono pubblici e possono essere liberamente riprodotti: qualora vengano estrapolati dal presente sito, si prega di citare quale fonte www.processociviletelematico.it

 

 

N. 01950/2016 REG.PROV.COLL.

N. ***/2016 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Quarta)

 

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

Nel giudizio introdotto con il ricorso *** del 2016, proposto da B. F. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati M. e S. C.F. ***, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Milano, via ***;

contro

l’A.S.L.R.5 – già A.S.L.R.G – in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

per l’ottemperanza

del giudicato, di cui al decreto ingiuntivo n. ***/2013, emesso in favore dell’odierna parte ricorrente dal Tribunale di Milano, per la somma di € 9.499.557,87 oltre interessi e spese della procedura, non tempestivamente opposto.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visto l’art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2016 il pres. cons Angelo Gabbricci e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1.1. Il Tribunale di Milano, con il provvedimento in epigrafe, ha condannato l’Azienda resistente – l’A.S.L.R.5, già A.S.L.R.G – a corrispondere, in favore di B. F. S.p.A., la somma di € € 9.499.557,87, liquidando altresì le spese processuali, incluse quelle successive occorrente.

1.2. Il provvedimento è divenuto inoppugnabile dopo la dichiarazione di esecutività da parte del giudice che lo ha pronunciato, con la conseguente autorità di cosa giudicata (C.d.S., V, 29 aprile 2016, n. 1644).

1.3. L’Amministrazione resistente ha soddisfatto solo parzialmente la pretesa recata dal titolo e la parte creditrice ha allora proposto il ricorso per ottemperanza in esame, con cui è stato chiesto che questo giudice:

a) dichiari, in esecuzione del predetto provvedimento, l’obbligo per l’Ente resistente di provvedere in un termine dato al pagamento delle somme dovute, ammontanti, secondo quanto richiesto nel ricorso per ottemperanza a € 3.293.980,52, dei quali:

– € 606.024,52 in linea capitale

– € 2.663.425,15 a titolo di interessi di mora maturati al 21/12/15;

– € 4.698,85 per le spese liquidate in decreto e per le successive;

– € 19.832,00 per l’imposta di registro sul decreto ingiuntivo.

 

b) disponga sin d’ora che a tanto provveda, per il caso di perdurante inadempimento, un commissario ad acta;

c) condanni l’Amministrazione resistente al pagamento di un’astreinte – o penalità di mora – per il ritardo nell’esecuzione del giudicato, ai sensi dell’art. 114, IV comma, lett. e), c.p.a., in una somma equitativamente determinata;

d) condanni l’Amministrazione alle spese di lite per il presente giudizio.

2.1. Il difensore, come si legge nella relazione formata in calce all’atto, e riferibile al 15 marzo 2016, ha notificato «ai sensi della legge 21 gennaio 1994 n. 53, la copia informatica del predetto ricorso inclusa in allegato e denominata “RICORSO PER OTTEMPERANZA”, di cui dichiaro a norma dell’art. 3 bis della legge 53/1994 e della disciplina ivi richiamata la conformità all’originale a: A.S.L.R.5, già A.S.L.R.G, in persona del legale rappresentante pro tempore, presso l’indirizzo di posta elettronica certificata (***@pec.***.it) estratto dal registro delle Pubbliche Amministrazioni».

2.2. Tale notificazione, effettuata esclusivamente in forma telematica a mezzo posta elettronica certificata, è nulla, come verrà di seguito chiarito.

2.3. Invero, l’art. 52, II comma, c.p.a., disponeva alla data del 15 marzo 2016, quando appunto la notificazione via p.e.c. fu effettuata, e dispone tuttora, che il presidente del T.A.R. – o della sezione – può autorizzare la notificazione del ricorso o di provvedimenti anche direttamente dal difensore con qualunque mezzo idoneo, compresi quelli per via telematica, confermando così che, ordinariamente (v. per un’eccezione il seguente l’art. 56, II comma), nel processo amministrativo la notificazione viene effettuata consegnando – o rendendo possibile la consegna – al destinatario la copia conforme di un atto cartaceo, previa apposizione d’una relazione essa pure cartacea, con le forme previste dalla legge processuale civile, ovvero dalla normativa speciale (D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229; Legge 20 novembre 1982, n. 890; Legge 21 gennaio 1994, n. 53), coerentemente con il supporto cartaceo che, sia pure integrato da quella digitale, ancora viene richiesto per gli atti processuali amministrativi.

3.1. È poi noto che l’art. 25 – impiego della posta elettronica certificata nel processo civile – della l. 12 novembre 2011, n. 183, nell’introdurre svariate modifiche alla l. 21 gennaio 1994, n. 53 (“Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati”) ha, anzitutto, integrato l’art. 1, il quale dispone attualmente che il difensore, debitamente autorizzato, “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20 novembre 1982, n. 890: e tale notificazione “può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata”.

3.2. Ancora, l’art. 16 quater, I comma, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha introdotto nella citata l. 53/1994 l’art. 3-bis, il quale disciplina dettagliatamente la notificazione con modalità telematica.

3.3. È però inutile soffermarsi sui relativi contenuti: infatti, per espressa previsione del comma 3-bis dello stesso art. 16 quater, aggiunto dall’articolo 46, comma 2, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, non si applica alla giustizia amministrativa quanto disposto dal III comma dello stesso art. 16 quater, il quale prevede che le disposizioni di cui al comma 1 – quelle che, secondo quanto detto, mediante l’art. 3 bis regolano in dettaglio la notifica telematica – “acquistano efficacia a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del decreto” del Ministro della giustizia per l’adeguamento delle regole tecniche richieste per le notificazioni.

3.4. Insomma, sia pure indirettamente, l’art. 16 quater stabilisce che, almeno davanti al giudice ordinario, le nuove norme primarie sulla notificazione telematica richiedono, per entrare in vigore, una disciplina tecnica, di grado secondario, riferita, peraltro, al processo ordinario e non a quello amministrativo; e ciò diversamente dalle comunicazioni di segreteria, per le quali il legislatore ha esplicitamente esteso al giudizio amministrativo la possibilità di effettuarle a mezzo posta certificata (art. 16, comma 17 bis, del d.l. 179/2012, aggiunto dall’art. 46, II comma, del citato d.l. 90/2014).

4.1. La necessità, espressa dal legislatore, di subordinare l’effettivo impiego della notificazione telematica ad una compiuta regolamentazione di dettaglio, permette intanto di concludere che la previsione, di cui al novellato art. 1 della l. 53/1994, la quale consente la notificazione di atti “in materia civile, amministrativa e stragiudiziale”, anche a mezzo di posta elettronica certificata, costituisce una norma di principio, la quale, per avere concreta applicazione, richiede disposizioni ulteriori, incluse le specifiche tecniche, come quelle introdotte per il giudizio civile, dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48, che ha integrato il d.m. 21 febbraio 2011, n. 44.

4.2. Del resto, ed a prescindere dai vantaggi pratici – od economici – che può presentare per il difensore, la notificazione telematica di un atto, a sua volta munito di firma digitale, trova per efficienza la sua compiuta giustificazione, in un processo telematico vero e proprio: in quello cartaceo – o analogico, se si preferisce – il difensore, per effettuare la notificazione telematica deve, dapprima, estrarre e autenticare una copia informatica dell’atto, già formato su supporto cartaceo/analogico – che, ovviamente, non può comunque mancare – anche se può essere sottoscritto con firma digitale (così, per il processo amministrativo, l’art. 136, comma 2-bis, nella versione precedente alle modifiche apportare a partire dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, e ancora non entrate in vigore); in seguito deve di nuovo estrarre – e parimenti autenticare – una copia analogica dei certificati digitali, attestanti l’invio e il ricevimento ad un indirizzo di posta elettronica della copia informatica.

4.3. Sembra palese al Collegio che tanto queste operazioni, quanto la procedura di notificazione telematica diretta (cioè di un atto digitale, che non va riconvertito in analogico) – ove divengano una modalità ordinaria di comunicazione debbano rispettare delle norme tecniche omogenee, e non utilizzare soluzioni estemporanee, adattate da altri modelli processuali: tali norme non sono tuttora in vigore nel processo amministrativo, per cui la notificazione digitale non vi può trovare di norma applicazione, fatte salve singole autorizzazioni ex art. 52, II comma, rilasciate dal presidente, che dovrà individuare, sia pure per relationem, adeguate modalità applicative.

5.1. D’altra parte, non va dimenticato che il processo amministrativo telematico ha avuto negli ultimi anni un’intricata evoluzione normativa – di cui non è qui necessario dare puntualmente conto – la quale conferma come non si applichi ancora la notificazione telematica.

5.2. Invero, l’art. 13 delle norme di attuazione al codice del processo amministrativo prevede che, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sono stabilite le regole tecnico-operative per la sperimentazione, la graduale applicazione e l’aggiornamento del processo amministrativo telematico; e l’art. 38 del citato d.l. 90/2014 ha stabilito – con norma più volte prorogata – il termine per l’adozione di tale decreto, che è stato poi pubblicato sulla G.U. del 21 marzo 2016, n. 67, ed è contenuto nel d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, il quale, all’art. 14, disciplina dettagliatamente le notificazioni per via telematica.

Infine, l’art. 2, I comma, del d.l. 30 giugno 2016, n. 117, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 agosto 2016, n. 161, ha stabilito che “al processo amministrativo telematico di cui al DPCM 16.2.2016 n. 40, è dato avvio alla data del 1 gennaio 2017”.

5.3. Il legislatore ha dunque implicitamente stabilito che le regole sulle notificazioni per via telematica, contenute nel ripetuto regolamento, trovino applicazione al processo amministrativo con l’entrata in vigore del processo telematico, e dunque dal 1 gennaio 2017.

Ciò, del resto, è del tutto ragionevole, appunto perché questa modalità di notificazione ha il proprio scopo in quel modello processuale; in un processo che è comunque ancora analogico e cartaceo ha concretamente solo il vantaggio di economizzare per il difensore l’attività di notificazione.

Tale attività non costituisce peraltro un adempimento marginale, quanto il momento in cui si dà conoscenza legale di un atto processuale, e da cui decorrono svariati termini processuali essenziali: conoscenza che è bensì presuntiva, ma che per ciò stesso deve essere raggiunta senza approssimazioni novative, nel rigoroso rispetto delle norme, e, nell’incertezza, di quelle a più elevato formalismo e comunque più coerenti con il sistema processuale in cui si collocano.

5.4. In conclusione, sino all’entrata in vigore del processo amministrativo telematico, la notificazione a mezzo posta elettronica certificata, effettuata dal difensore in mancanza di una specifica disciplina, non costituisce una forma ordinaria di notificazione, dovendosi ritenere tale soltanto quella che è riferibile agli atti processuali di parte in formato analogico: essa, in mancanza di una specifica disciplina riferita al vigente processo amministrativo, è dunque nulla se non previamente e dettagliatamente autorizzata.

6.1. Il Collegio non si nasconde, peraltro, che la questione ha conosciuto soluzioni giurisprudenziali difformi, anche in tempi recenti; e, se si è giunti ad affermare che la notifica in questione, in mancanza di autorizzazione presidenziale, sarebbe addirittura inesistente (C.d.S., III 20 gennaio 2016, n. 189: ma il solo fatto che si possa autorizzarla lo esclude), hanno invece concluso a favore della validità della notificazione telematica, tra le altre, C.d.S., III, 14 gennaio 2016, n. 91; C.d.S., VI, 28 maggio 2015, n. 2682 e T.A.R. Calabria – Catanzaro, II, 4 febbraio 2015, n. 183.

6.2. Appare allora condivisibile quanto stabilito da T.R.G.A. Trento, 15 febbraio 2016, n. 86, che, dopo aver accertato la nullità della notificazione telematica non autorizzata, ha stabilito, “sulla scorta dell’art. 44, comma 3, c.p.a. e del principio della strumentalità delle forme processuali”, che la costituzione delle parti intimate, effettuata nei termini di legge e argomentata in rito e nel merito al fine di chiedere la reiezione del ricorso, è idonea a sanare la nullità, per effetto del raggiungimento dello scopo, e a instaurare validamente il rapporto processuale.

6.3. A ciò si può aggiungere, caso per caso, l’applicazione dell’istituto dell’errore scusabile, ex art. 37 c.p.a. e, così, la rimessione in termini “in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto” per effettuare la notifica ordinaria: incertezza, la quale trova conferma nella variegata giurisprudenza, prima accennata.

7.1. In specie, è anzitutto mancata la costituzione sanante dell’Amministrazione.

Quanto poi all’errore scusabile, non solo parte ricorrente non ne ha chiesto l’applicazione, pur essendo stata avvertita nel corso di una precedente udienza, della possibile nullità della notificazione, ma ha soltanto richiesto un rinvio, in attesa della definizione di un accordo stragiudiziale con il debitore.

7.2. Tenuto conto di ciò, e della rinnovabilità dell’azione di ottemperanza, non si ritiene di concedere un termine per la rinnovazione della notificazione del ricorso per ottemperanza in esame.

7.3. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile per nullità della notificazione; non vi è luogo a provvedere sulle spese di lite, non essendosi costituita l’Amministrazione.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara inammissibile per nullità della notificazione.

Nulla per le spese.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio addì 29 settembre 2016 con l’intervento dei signori magistrati:

Angelo Gabbricci, Presidente, Estensore

Concetta Plantamura, Consigliere

Fabrizio Fornataro, Consigliere

 

IL PRESIDENTE, ESTENSORE

Angelo Gabbricci

 

IL SEGRETARIO

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PCT: stato dell’arte al 30 settembre 2016

 

Sono state pubblicate sul Portale dei Servizi Telematici le statistiche aggiornate relative al processo civile telematico.

Da ottobre 2015 a settembre 2016 sono stati gestiti quasi 12 milioni di depositi telematici (oltre 7.700.000 atti di professionisti esterni e quasi 4.200.000 provvedimenti di magistrati).

PCT: stato dell’arte al 30 settembre 2016 Leggi tutto »

Cass., sez. 6-1, sent. 9 settembre 2016, n. 17884 (Pres. Ragonesi, rel. Genovese)

 

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

sul ricorso nn/aaaa proposto da:

 

M.C., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA RAGUSA 60, presso lo studio dell’avvocato D.C., che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO I. DI M.C., in persona del curatore fallimentare, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE PARIOLI 79H, presso lo studio dell’avvocato M.L., rappresentata e difesa dall’avvocato U.P. giusta mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

***

– intimati –

 

avverso la sentenza n. NN/AAAA della CORTE D’APPELLO di BARI del gg/mm/aa, depositata il gg/mm/aaaa;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’01/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO ANTONIO GENOVESE;

udito l’Avvocato F.D.S. (delega avvocato C.) difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato F.M. (delega avvocato P.) difensore della controricorrente che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo e Motivi della decisione

Rilevato che, con sentenza in data ***, la Corte d’Appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto, ex art. 18 LF, da C.M. contro la sentenza del Tribunale di quella stessa città, che aveva dichiarato il fallimento dell’impresa individuale I. di M.C.;

che, secondo la Corte territoriale, era infondata la doglianza della reclamante relativa al mancato perfezionamento della notificazione dell’avviso di udienza, in quanto la stessa, diretta all’indirizzo pec risultante dal registro delle imprese, aveva avuto esito positivo, in base alla ricevuta telematica che segnalava la ricezione del primo ricorso (quello dell’istanza B. + altri), in data 9 giugno 2014 (ore 10:59:34) e del secondo (istanza D.), in data 18 settembre 2014 (ore 16:47);

che non era condivisibile l’eccezione della illegittimità della notificazione a mezzo pec nei riguardi dell’imprenditore individuale, cancellato dal registro delle imprese, atteso che tale cancellazione non inciderebbe sulle modalità della notificazione ove non proceduta dalla disattivazione della pec, possibile solo su attività della parte;

che, ad abundantiam, risultava svolta anche la notificazione secondo la disciplina introdotta dalla L. Fall., art. 15, nuovo comma 3, ossia la notifica “esclusivamente di persona”, che è stata tentata ed eseguita nelle forme di rito sia presso la sede dell’impresa (che, per non essere reperibile in loco, aveva imposto all’Ufficiale giudiziario di eseguire il deposito presso la casa comunale) sia presso l’ultima residenza del M. (dove il plico non è stato consegnato e dal quale non è stato mai ritirato);

che non avrebbe avuto pregio l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal reclamante, essendosi egli reso inadempiente dei più elementari doveri di garantire l’utilizzazione di una casella pec efficiente e funzionante;

che il credito fatto valere dagli istanti costituiva titolo esecutivo e, comunque, per la dichiarazione di fallimento non era neppure necessario che lo fosse, essendo sufficiente, a tal fine, un accertamento incidentale da parte del giudice;

che, avverso la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso il fallito, con atto notificato il 23 marzo 2015, sulla base di quattro motivi, con cui denuncia violazione e falsa applicazione di norme di legge processuale (art. 151 c.p.c., e D. Lgs. n. 28 del 2010, art. 12) e fallimentare (art. 15) e vizi motivazionali, dolendosi, principalmente: a) dell’omessa considerazione dell’eccezione secondo cui, ai sensi dell’art. 151 c.p.c., il Tribunale di Bari, con una sorta di ordinanza generale, avrebbe imposto ai creditori delle imprese individuali, che siano state cancellate dal registro delle imprese, la notificazione delle istanze di fallimento secondo le “forme ordinarie”, precedentemente in vigore, ciò che nella specie non sarebbe stato poi concretamente osservato; b) dell’illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 15, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., in quanto la cancellazione dell’impresa equivale all’imprenditore defunto e renderebbe privo di valore l’uso della casella pec per le notificazioni e comunicazione ad un, ormai privato, cittadino, il quale sarebbe tenuto a risponderne anche in termini assai ristretti in sede prefallimentare; c) della mancata osservanza del termine di 15 giorni stabilito dalla legge; d) dalla mancanza della qualità di ruolo esecutivo del verbale di conciliazione prodotto dai lavoratori creditori istanti, non essendo stato il M., firmatario dello stesso, assistito da un difensore.

Il curatore fallimentare ha resistito con controricorso.

Considerato che i primi due mezzi di cassazione, tra di loro strettamente connessi possono essere esaminati congiuntamente, e dichiarati non fondati;

che, infatti, con riguardo alla questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 15, comma 3, come sostituito dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 17, comma 1, lett. a), (Ulteriori misure Ingenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 2211, si è di recente pronunciata la Corte costituzionale, con la sentenza n. 146 del 2016, con la quale Essa ha dichiarato non fondata la questione, sollevata, in riferimento agli atti. 3 e 24 Cost.;

che, come ha osservato la Corte, “il diritto di difesa dell’imprenditore, nel procedimento fallimentare a suo carico, è adeguatamente garantito dalla disposizione denunciata, in ragione del predisposto duplice meccanismo di ricerca” di esso;

che, infatti, il debitore, “ai fini della sua partecipazione al giudizio, viene notiziato dapprima presso il suo indirizzo di PEC, del quale è obbligato a dotarsi, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, ex art. 16, (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, ed è tenuto a mantenere attivo durante la vita dell’impresa; dunque, in forza di un sistema che presuppone il corretto operare della disciplina complessiva che regola le comunicazioni telematiche da parte dell’ufficio giudiziario e che, come tale, consente di giungere ad una conoscibilità effettiva dell’atto da notificare, in modo sostanzialmente equipollente a quella conseguibile con i meccanismi ordinari (ufficiale giudiziario e agente postale)”;

che, peraltro, “a fronte della non utile attivazione di tale primo meccanismo segue la notificazione presso la sede legale dell’impresa: ossia, presso quell’indirizzo da indicare obbligatoriamente nell’apposito registro ex L. 29 dicembre 1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) e successive modifiche, la cui funzione è proprio quella di assicurare un sistema organico di pubblicità legale, sì da rendere conoscibili e perciò opponibili ai terzi, nell’interesse dello stesso imprenditore – i dati concernenti l’impresa e le principali vicende che la riguardano”;

che, pertanto, “in caso di esito negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell’atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione, da parte dell’imprenditore, dei descritti obblighi impostigli dalla legge”;

che la piena compatibilità della disposizione di cui all’art. 15, comma 3, con i parametri costituzionali invocati, ivi incluso anche quello di cui all’art. 111 Cost., risulta anche dalle “esigenze di compatibilità tra il diritto di difesa egli obiettivi di speditezza e operatività, ai quali deve essere impiantato il procedimento concorsuale”, sicché esse “giustificano che il tribunale resti esonerato dall’adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell’imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico”;

che in tale situazione rientra anche il caso dell’imprenditore individuale il quale, cancellatosi dal registro delle imprese per la cessata attività, abbia disattivato la propria casella di pec anche nel periodo dell’anno successivo nel quale, ai sensi della L. Fall., art. 10, egli può essere dichiarato fallito [“il termine di un anno, entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito ai sensi della L. Fall., art. 10, (nel testo modificato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, e dal D.Lgs. n. 169 del 2007), decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese, senza possibilità per l’imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell’effettiva cessazione dell’attività”. (Sez. 1, Sentenza n. 8092 del 2016)];

che, infatti, “la L. Fall., art. 10, comma 1, il quale prevede che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro il termine di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se d’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo (termine che, in base all’ultimo comma del successivo art. 22, si computa con riferimento al decreto della corte di appello che respinge il reclamo contro il decreto del tribunale che ha rigettato il ricorso per la dichiarazione di fallimento), pur ponendo a carico del creditore che ha tempestivamente presentato istanza di fallimento il rischio della durata del relativo procedimento, non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto: a) con riferimento al principio di eguaglianza, il possibile diverso trattamento dei creditori in relazione alla diversa durata del procedimento non discende dal requisito temporale prescritto dalla legge, ma dal concreto svolgersi del procedimento ed è perciò un problema di fatto irrilevante ai fini della legittimità costituzionale della norma; b) con riferimento al diritto di difesa la previsione di un termine annuale rappresenta il punto di mediazione nella tutela di interessi contrapposti, quali, da un lato, quelli dei creditori, e, dall’altro, quello generale, e non del solo cessato imprenditore, alla certezza dei rapporti giuridici”. (Sez. 1, Sentenza n. 8932 del 2013);

che, del resto, con riferimento all’imprenditore individuale, non sorge neppure il problema dell’identificazione, dopo la cancellazione dell’impresa sociale dal registro, del suo rappresentante, necessaria perché possa operare quella ficto iuris (Sez. 1, Sentenza n. 24968 del 2013) che permette lo svolgimento del procedimento prefallimentare e delle eventuali successive fasi impugnatorie;

che, in tali casi, infatti, l’imprenditore individuale è univocamente quella persona fisica la cui casella pec ha come indirizzo (come nella specie) proprio il suo nome e cognome, sicché la deliberata sua disattivazione [nel termine annuale in cui perdura, ex lege (L. Fall., art. 10), la sua responsabilità per la sistemazione concorsuale delle proprie debitorie, mediante la necessaria dichiarazione di fallimento], è produttiva di una di quelle ipotesi di irreperibilità dell’imprenditore che la stessa Corte costituzionale – nella menzionata sentenza n. 146 del 2016 – ha definito come imputabili “alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico”;

che, di conseguenza, la procedura di notificazione prefallimentare, tentata attraverso la comunicazione a mezzo PEC, e poi presso la casa comunale (nonché, de facto, e ad abundantiam anche presso l’ultima residenza, dove lo stesso non è stato trovato) è immune da censure ed eseguita alla luce di una disposizione di legge (la L. Fall., art. 15, comma 3) pienamente compatibile con i richiamati parametri costituzionali;

che, in ultimo, come ha osservato la sentenza n. 146 della Corte costituzionale, “la riconosciuta natura devolutiva del reclamo – come regolato dalla L. Fall., art. 18, nel testo sostituito dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, art. 2, comma 7, (Diposizioni integrative e correttive al R.D. 16 matto 1942, n. 267, nonché al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi della L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, commi 5, 5 bis e 6) – consente, infatti, al fallito, benché non costituito innanzi al tribunale, di indicare, comunque, per la prima volta, in sede di reclamo avverso la sentenza di primo grado (che gli viene notificata nelle forme ordinarie), i fatti a sua difesa ed i mezzi di prova di cui intenda avvalersi al fine di sindacare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi che hanno condotto alla dichiarazione di fallimento (Corte di cassazione, sentenze n. 6835 e n. 6300 del 2014, n. 22546 del 2010, ordinanza n. 9174 del 2012)”;

che, sotto tale profilo, i fatti e i mezzi addotti non hanno avuto pregio e non lo hanno neppure in questa sede;

che, infatti, quanto al terzo mezzo, il termine di legge è stato rispettato per il primo gruppo di creditori istanti ed in ogni caso la questione, mai agitata nel corso del giudizio di reclamo, è del tutto nuova;

che, quanto all’ultimo mezzo, in disparte la questione della natura esecutiva del titolo esecutivo (verbale di conciliazione), che il ricorrente nega e la curatela afferma, resta la mancata censura della seconda ratio decidendi contenuta nella pronuncia impugnata che ha portato la corte territoriale ad affermare la sussistenza del credito previo accertamento incidentale della bontà dello stesso.

che, in conclusione, il ricorso è infondato e deve essere respinto;

che la novità della pronuncia della Corte costituzionale, intervenuta dopo la proposizione del ricorso per cassazione, induce a compensare le spese di questa fase, ma non può far escludere il previsto raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-1 sezione civile della Corte di cassazione, il 1 luglio 2015, dai magistrati sopra indicati.

 

Il Consigliere Estensore

Francesco Antonio Genovese

 

Il Presidente

Vittorio Ragonesi

 

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2016

Cass., sez. 6-1, sent. 9 settembre 2016, n. 17884 (Pres. Ragonesi, rel. Genovese) Leggi tutto »

Corte Cost., sent. 18 maggio 2016, n. 146 (Pres. Grossi, rel. Morelli)

 

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SENTENZA N. 146

ANNO 2016

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma terzo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall’art. 17, comma 1, lettera a), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, promosso dalla Corte d’appello di Catanzaro nel procedimento vertente tra R.A. nella qualità di socio e legale rappresentante della Cooperativa agricola A.D. società cooperativa a responsabilità limitata e la curatela del Fallimento “Cooperativa agricola A.D. soc. coop. a r.l.” ed altra, con ordinanza del 28 aprile 2015, iscritta al n. 192 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 maggio 2016 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.

 

Ritenuto in fatto

 

1.− Chiamata a decidere sul reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento di una società cooperativa la quale lamentava di non aver potuto partecipare all’istruttoria prefallimentare per non aver avuto notizia della data dell’udienza di convocazione di essa debitrice, l’adita Corte d’appello di Catanzaro – rilevato che il ricorso del creditore ed il pedissequo decreto del giudice delegato di fissazione dell’udienza di comparizione, dopo l’esito di precedenti loro notifiche presso l’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) e presso la sede di detta società, erano stati infine notificati con deposito nella casa comunale della sede risultante dal registro delle imprese, così come prescritto dall’art. 15, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall’art. 17, comma 1, lettera a), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221 – ha ritenuto, di conseguenza, rilevante, al fine del decidere sul proposto reclamo, ed ha perciò sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale del predetto art. 15, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nel testo come sopra modificato ed attualmente vigente.

Secondo il Collegio rimettente – che dichiaratamente rivolge le proprie censure alla sola ipotesi della notifica ad imprese esercitate in forma collettiva – la possibilità, consentita dalla norma denunciata, che una siffatta notifica, in caso di mancato reperimento del destinatario, si perfezioni con il solo deposito nella casa comunale, senza le ulteriori cautele previste dall’art. 145 del codice di procedura civile per le notifiche a persona giuridica (e cioè «senza alcuna necessità di dare conto e notizia di tale incombente» e senza la previsione alternativa di notifica alla persona fisica del legale rappresentante della società) comporterebbe «una disparità di trattamento tra le notifiche “ordinarie” e quelle del processo fallimentare […] né ragionevole né motivata», in violazione del precetto dell’art. 3 della Costituzione.

Sarebbe, inoltre, violato l’art. 24 Cost., per il profilo del diritto di difesa della persona giuridica debitrice, poiché il mero deposito nella casa comunale «non costituisce un mezzo idoneo a rendere conoscibile l’atto al suo destinatario, mancando qualsiasi altra cautela diretta a rendere edotto il notificato».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

Ciò in ragione della non assimilabilità delle notifiche ordinarie e di quelle del processo fallimentare, e in considerazione della ratio della norma censurata, la quale, «in definitiva, poggia, senza ledere gli artt. 3 e 24 Cost., sull’insopprimibile esigenza di bilanciamento nella fase istruttoria tra il diritto al contraddittorio dell’imprenditore e le esigenze di celerità a tutela dei creditori, ai quali deve essere evitato un danno derivabile dalla mancata sollecita instaurazione della procedura».

 

Considerato in diritto

 

1.− Nel corso del giudizio di cui si è in narrativa detto, la Corte d’appello di Catanzaro – premessane la rilevanza, e motivatane la non manifesta infondatezza, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione – ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 15, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall’art. 17, comma 1, lettera a), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221.

2.– La disposizione denunciata stabilisce che alla notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del decreto di fissazione dell’udienza debba procedere la cancelleria e che essa debba essere effettuata all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del destinatario risultante dal registro delle imprese ovvero dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata. Solo nel caso in cui ciò risulti impossibile, o se la notifica abbia avuto esito negativo, della stessa viene onerato il creditore istante che dovrà procedervi a mezzo di ufficiale giudiziario, il quale, a tal fine, dovrà accedere di persona presso la sede legale del debitore con successivo deposito nella casa comunale, ove il destinatario non sia lì reperito.

3.– Secondo la Corte rimettente, che espressamente limita la questione alla ipotesi della notifica ad imprenditore collettivo, la riferita disposizione violerebbe l’art. 3 Cost., per l’«irragionevole ed immotivata disparità di trattamento», cui darebbe luogo, rispetto alle modalità richieste per la notifica “ordinaria” a persona giuridica, con riguardo alla specifica evenienza del mancato reperimento del destinatario presso la sede legale. Atteso che il procedimento notificatorio si perfeziona, nel contesto del processo fallimentare, con (e nel momento stesso de) il «deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese», senza le ulteriori cautele previste, invece, dall’art. 145 del codice di procedura civile, per le notifiche a persona giuridica (e cioè «senza alcuna necessità di dare conto e notizia di tale incombente» e senza la previsione alternativa di notifica alla persona fisica del legale rappresentante della società). Risultando, con ciò, sempre ad avviso del rimettente, di conseguenza violato anche l’art. 24 Cost., in quanto la disciplina censurata prevederebbe «modalità di notifica che non comportano neanche astrattamente la conoscibilità della pendenza della procedura» a carico dell’impresa collettiva, destinataria della istanza di fallimento.

4.– La questione non è fondata in relazione ad entrambi i parametri che si assumono violati.

4.1.– Non sussiste, in primo luogo, infatti, la prospettata violazione dell’art. 3 Cost., attesa la diversità delle fattispecie poste a confronto, che ne giustifica, in termini di ragionevolezza, la diversa disciplina delle notificazioni.

A differenza della disposizione di cui all’evocato art. 145 cod. proc. civ. – esclusivamente finalizzata all’esigenza di assicurare alla persona giuridica l’effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati ad alle connesse procedure – il riformulato art. 15 della così detta legge fallimentare (come emerge dalla relazione di accompagnamento dell’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, il cui testo, in parte qua, non è stato oggetto di modifiche in sede di conversione) si propone, infatti, di «coniugare» quella stessa finalità di tutela del diritto di difesa dell’imprenditore (collettivo) «con le esigenze di celerità e speditezza cui deve essere improntato il procedimento concorsuale». E, a tal fine appunto, prevede che «il tribunale è esonerato dall’adempimento di ulteriori formalità quando la situazione di irreperibilità deve imputarsi all’imprenditore medesimo».

La specialità e la complessità degli interessi (comuni ad una pluralità di operatori economici, ed anche di natura pubblica in ragione delle connotazioni soggettive del debitore e della dimensione oggettiva del debito), che il legislatore del 2012 ha inteso tutelare con l’introdotta semplificazione del procedimento notificatorio nell’ambito della procedura fallimentare, segnano, dunque, l’innegabile diversità tra il suddetto procedimento e quello ordinario di notifica ex art. 145 cod. proc. civ.

Ciò, dunque, ne esclude la comparabilità in riferimento al precetto dell’art. 3 Cost.

4.2.– Del pari non fondata è anche la residua censura di violazione dell’art. 24 Cost.

Il diritto di difesa, nella sua declinazione di conoscibilità, da parte del debitore, dell’attivazione del procedimento fallimentare a suo carico, è adeguatamente garantito dalla norma denunciata, proprio in ragione del predisposto duplice meccanismo di ricerca della società.

Questa, infatti, ai fini della sua partecipazione al giudizio, viene notiziata prima presso il suo indirizzo di PEC, del quale è obbligata a dotarsi, ex art.16 del d.l., 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, ed è tenuta a mantenere attivo durante la vita dell’impresa; dunque, in forza di un sistema che presuppone il corretto operare della disciplina complessiva che regola le comunicazioni telematiche da parte dell’ufficio giudiziario e che, come tale, consente di giungere ad una conoscibilità effettiva dell’atto da notificare, in modo sostanzialmente equipollente a quella conseguibile con i meccanismi ordinari (ufficiale giudiziario e agente postale).

Solo a fronte della non utile attivazione di tale primo meccanismo segue la notificazione presso la sede legale dell’impresa collettiva: ossia, presso quell’indirizzo da indicare obbligatoriamente nell’apposito registro ex l. 29 dicembre 1993 n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) e successive modifiche, la cui funzione è proprio quella di assicurare un sistema organico di pubblicità legale, sì da rendere conoscibili – e perciò opponibili ai terzi, nell’interesse dello stesso imprenditore – i dati concernenti l’impresa e le principali vicende che la riguardano.

Per cui, in caso di esito negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell’atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione, da parte dell’imprenditore collettivo, dei descritti obblighi impostigli dalla legge.

Ciò anche alla luce del principio, più volte enunciato dalla Corte di cassazione (seppur con riferimento al testo previgente dell’art. 15 della legge fallimentare), per cui esigenze di compatibilità tra il diritto di difesa e gli obiettivi di speditezza e operatività, ai quali deve essere improntato il procedimento concorsuale, giustificano che il tribunale resti esonerato dall’adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell’imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico (sezione sesta, sentenze n. 3062 del 2011, n. 32 del 2008).

Va conclusivamente poi considerato che il sistema, nel quale si inserisce la disposizione censurata, non è privo di ulteriori correttivi a tutela della effettività del diritto di difesa dell’imprenditore.

La riconosciuta natura “devolutiva” del reclamo – come regolato dall’art. 18 della legge fallimentare, nel testo sostituito dall’art. 2, comma 7, del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della l. 14 maggio 2005, n. 80) – consente, infatti, al fallito, benché non costituito innanzi al tribunale, di indicare, comunque, per la prima volta, in sede di reclamo avverso la sentenza di primo grado (che gli viene notificata nelle forme ordinarie), i fatti a sua difesa ed i mezzi di prova di cui intenda avvalersi al fine di sindacare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi che hanno condotto alla dichiarazione di fallimento (Corte di cassazione, sentenze n. 6835 e n. 6300 del 2014, n. 22546 del 2010, ordinanza n. 9174 del 2012).

 

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma terzo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall’art. 17, comma 1, lettera a), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catanzaro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Mario Rosario MORELLI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 giugno 2016.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

Corte Cost., sent. 18 maggio 2016, n. 146 (Pres. Grossi, rel. Morelli) Leggi tutto »

Cass., sez. 6-3, ord. 4 ottobre 2016, n. 19814 (Pres. Amendola, rel. Rossetti)

 

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE CIVILE -3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADELAIDE AMENDOLA – Presidente –

Dott. ULIANA ARMANO – Consigliere –

Dott. RAFFAELE FRASCA – Consigliere –

Dott. LINA RUBINO – Consigliere –

Dott. MARCO ROSSETTI – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso *** proposto da:

I.E. R.G., in persona del titolare, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato O.R. giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.P.V., in persona del Presidente, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato M.V., che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. nn/aaaa della CORTE D’APPELLO di ROMA del ***, depositata il ***;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO ROSSETTI;

udito l’Avvocato O.R. difensore della ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato R.O. (delega avvocato M.V.) difensore della controricorrente che si riporta agli scritti.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

1. Il consigliere relatore ha depositato, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., la seguente relazione:

“1. G.R. ha impugnato per cassazione la sentenza gg/mm/aaaa n. nn della Corte d’appello di Roma.

Con tale sentenza è stato rigettato il suo appello contro la sentenza gg.mm.aaaa n. nn del Tribunale di Viterbo.

Con tale ultima sentenza era stata rigettata la domanda del danno proposta da G.R. nei confronti della Provincia di V., avente ad oggetto il risarcimento dei danni patiti dal primo in conseguenza di una insidia stradale ascritta a responsabilità della seconda.

2. Coi due motivi di ricorso G.R. deduce in sostanza che:

(a) la Corte d’appello ha violato l’art. 2051 c.c., perché non ha fatto applicazione della presunzione di responsabilità ivi prevista nei confronti della Provincia;

(b) la Corte d’appello ha violato l’art. 112 c.p.c., perché ha ritenuto tardiva l’invocazione di tale norma da parte dell’attore.

3. Il morso appare inammissibile, perché totalmente estraneo rispetto alla reale ratio decidendi posta dalla Corte d’appello a fondamento della propria decisione.

La Corte d’appello ha infatti confermato la decisione di primo grado in base al rilievo che:

(a) la responsabilità del sinistro andava ascritta a colpa esclusiva della vittima;

(b) la relativa statuizione del Tribunale era stata impugnata in modo aspecifico da G.R., ed era quindi inammissibile, ex art. 342 c.p.c.;

(c) in ogni caso, anche nel caso di responsabilità oggettiva (e quindi anche nel caso di applicazione dell’art. 2051 c.c.), il comportamento colposo della vittima è circostanza di per sé sufficiente ad escludere il nesso di causa tra la cosa in custodia ed il danno (così la sentenza p. 7-8).

Nessuna di queste statuizioni è stata impugnata col ricorso per cassazione.

Pertanto, quale che fisse il giudizio che si volesse dare sulle doglianze formulate dal ricorrente, esse comunque non varrebbero a caducare la sentenza impugnata, la quale ha rigettato la domanda per difetto del nesso di causa.

Ed anche a voler applicare al caso di specie l’art. 2051 c.c., è noto come tale norma sollevi il danneggiato dall’onere di provare la colpa del custode, ma non il nesso di causa tra cosa in custodia e danno.

4. Si propone pertanto il rigetto del ricorso, con condanna alle spese”.

2. La parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2, con la quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

3. Il Collegio condivide le osservazioni contenute nella relazione.

Ritiene, invece, non decisive le contrarie osservazioni svolte dal ricorrente nella propria memoria.

4. Con tale memoria il ricorrente sig. G.R., dopo avere segnalato che la relazione preliminare, dopo avere prospettato l’inammissibilità del ricorso, conclude chiedendone il rigetto, torna a sostenere che la Corte d’appello di Roma avrebbe violato l’art. 2051 c.c., per avere rigettato la domanda di condanna della pubblica amministrazione sebbene questa non fosse riuscita a fornire alcuna prova liberatoria, né a dimostrare la colpa esclusiva della vittima.

Con la medesima relazione, infine, la parte ricorrente eccepisce la nullità della notificazione del controricorso, perché eseguita a mezzo posta elettronica certificata, ma senza che fosse indicato nell’oggetto del messaggio la dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

5. L’eccezione di nullità della notifica del controricorso – da esaminare per prima ex art. 276 c.p.c., comma 2 – è manifestamente infondata. La L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3 bis, comma 4, stabilisce che quando l’avvocato esegue la notificazione di atti processuali per mezzo della posta elettronica certificata, “il messaggio deve indicare nell’oggetto la dizione: “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

Nel caso di specie, il messaggio inviato dall’avv. M.V. (difensore della Provincia di V.) all’avv. O.R. (difensore del ricorrente) reca nel campo dedicato all’oggetto la dizione: “Notifica controricorso in cassazione”. In calce al testo del controricorso è tuttavia estesa la relazione di notificazione, che è intitolata: “Relazione di notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

5.1. Al cospetto d’una notificazione siffatta, nessuna nullità può essere dichiarata, per due ragioni:

(a) la prima ragione è che la L. n. 53 del 1994, art. 11, là dove commina la nullità della notificazione eseguita personalmente dall’avvocato “se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti” non intende affatto sanzionare con l’inefficacia anche le più innocue irregolarità (come già ritenuto da questa Corte: in tal senso, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13758 del 17/06/2014, Rv. 631724);

(b) la seconda ragione è che, a tutto concedere, anche le nullità di cui alla L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 11, sono sanate, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., dal raggiungimento dello scopo: il quale nel nostro caso è certamente avvenuto, dal momento che lo stesso ricorrente mostra di avere ricevuto la notifica del controricorso ed averne ben compreso il contenuto.

6. Quanto al merito del ricorso, le considerazioni svolte nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., depositata dal ricorrente non sono pertinenti.

Nel presente caso, infatti:

(a) il giudice di primo grado ha ritenuto che il sinistro si sia verificato per distrazione della vittima;

(b) G.R. ha impugnato tale statuizione;

(c) la Corte d’appello ha reputato l’impugnazione “inammissibile per carena del requisito di specificità ex cui art. 342 c.p.c.” (così la sentenza d’appello, p. 3, ultimo cpv.).

Ebbene, tanto nel ricorso, quanto nella memoria, il ricorrente non censura tale statuizione, la quale è di per sè sufficiente a sorreggere la decisione qui impugnata.

Ne consegue, da un lato, che vanamente la Corte d’appello si è soffermata sugli altri motivi di impugnazione, dal momento che la ritenuta genericità del secondo motivo dell’appello sarebbe di per sé bastata a dichiarare inammissibile l’intera impugnazione; e dall’altro lato che altrettanto vanamente in questa sede vengono censurate argomentazioni svolte dalla Corte d’appello, per quanto appena detto, solo ad abundantiam.

7. Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1 e sono liquidate nel dispositivo.

8. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.q.m.

la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c.:

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) condanna G.R. alla rifusione in favore di dell’A.P. di V. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 2.900, di cui Euro 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di G.R. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte di Cassazione, il 13 luglio 2016.

Il Presidente

(Adelaide Amendola)

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2016

Cass., sez. 6-3, ord. 4 ottobre 2016, n. 19814 (Pres. Amendola, rel. Rossetti) Leggi tutto »